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24 giugno 2017

Autobio 5: Trasferta Romana

Poteva essere il '92 o il '94: lunga trasferta a Roma per lavorare a un progetto di Telecomitalia (o forse era ancora la Sip?). Mai piaciuto viaggiare per lavoro, sono pigro, detesto mangiare da solo nei ristoranti.
Ricordo che al mattino mi presentavo all'ingresso di questa vetusta sede nella zona di Campo de Fiori per un ipotetico appuntamento col mio uomo di riferimento in Telecom (o era la Sip?).
Prima difficoltà: attirare l'attenzione della signora che stava alla guardiola, la quale, impegnata perennemente in dissertazioni culinarie telefoniche, evitava di guardarmi per non doversi interrompere. Dopo una decina di minuti mi chiedeva con aria annoiata: "Lei?", e io facevo tutte le volte il nome del collega, tale Fasciglione mi pare, ma forse confondo con qualche altro conosciuto all'epoca.
Per inciso i colleghi romani erano visti sempre con diffidenza da noi "torinesi", in quanto li giudicavamo indolenti, insomma non parevano granché interessati alla tematica tecnica e, mentre noi in trasferta cercavamo disperatamente di affrettare il lavoro per abbreviare la permanenza fuori casa, loro parevano non comprendere la nostra ansia. Oppure a volte parevano capirci sì, ma più per naturale bonaria empatia: il lavoro per loro non era mai fonte di stress.
Anche la signora alla guardiola sembrava non capire. Non capiva perché io volessi incontrare questo tizio e soprattutto come mai pretendessi di incontrarlo a quell'ora del mattino. Dopo una decina di minuti di attesa però, impietosita dal mio rimanere impalato davanti a lei, o forse seccata che io potessi rimanere a sentire la sua prossima telefonata, mi indicava la strada verso il laboratorio, dove c'era il "computer".
Verso le dieci e mezza arrivava trafelato il Fasciglione. Io solitamente stavo già lavorando da un po' e lui si sentiva in obbligo di accampare scuse sempre diverse per il suo ritardo: "er traffico, co' sto giubbileo ce sta 'n traffico... tutto bloccato... nun te poi immagginà...". Un secondo dopo però mi chiedeva con aria sorniona: "Già preso er caffè?" e mi portava in un bar di via Giulia che, a suo dire, era l'unico che sapeva fare un espresso come si deve.
Si facevano dunque le undici, le undici e un quarto. Lui iniziava a intuire che io potessi sentirmi in ansia. Lo capivo perché immancabilmente partiva una raffica di rassicurazioni: "comunque, oggi... finito o non finito, le sette? Le otto? annamo avanti a oltranza, che qua mica ce possiamo rilassà...".
Ma trascorsi dieci minuti: "beh però mo' s'annamo a magnà quarcheccosa... ce sta un posticino qua vicino...". E si andava in una trattoria da quelle parti, che nel mio ricordo poteva chiamarsi "er Trucido", ma sicuramente il nome vero non era questo. Il pasto ci portava via una bella oretta abbondante, il quartino di vino innaffiava bucatini succulenti e io dovevo fare appello alla mia forza di volontà per rifiutare l'ammazzacaffè che mi avrebbe steso.
Alle due e mezza si rientrava e ci si sedeva al computer.
Il Fasciglione aveva a quel punto l'occhio a mezz'asta e io, che avevo pietà della cecagna che vedevo crescere in lui, non potevo certo pretendere che la sua attenzione fosse totale. Lui simulava maldestramente un certo interesse nelle cose che io gli dicevo, ma poi immancabilmente, se gli argomenti si facevano complessi, tentava di rallentare il ritmo: "piano piano che me sta a scoppià 'a testa...".
Del tutto immune da qualsiasi accenno di competitività e desiderio di autoaffermazione, non si faceva scrupolo di sminuire le proprie capacità con frasi tipo "io, lo sai, de ste cose nun ce mastico...".
Alle tre e mezza, quattro meno un quarto iniziava ad agitarsi, si assentava per una telefonata e poi tornava con aria colpevole e contrita: "no, siccome che ce stà n'amico mio che ci ha un problema, nun ho capito bene, ma me sa che me tocca d'annà via. Ma tu poi restà, nun te fà problemi". Io acconsentivo e lui, felice che io non gli avessi creato grane, si illuminava come un cane che ha appena fatto i bisogni. Mi salutava con calore e mi diceva: "oh, intendiamoci, domattina mica come oggi, io posso sta' qua anche prima dele nove, famo otto e mezza? Anche le otto...". Io a quel punto gli chiedevo il piacere di attendermi fino alle nove, lui era comprensivo: "e vabbè, famo alle nove"
L'indomani tutto si ripeteva paro paro, come in "Ricomincio da capo".

La cena solitaria nelle lunghe trasferte è il momento più penoso della giornata per chi non ama viaggiare da solo. Di solito mi sedevo in un ristorante anonimo, dando la schiena alla parete e osservavo i clienti. Per pura noia cercavo di carpire brandelli delle loro conversazioni, ma poi fatalmente quelli finivano per scoprire che li stavo guardando e ciò creava reciproco imbarazzo.
Una sera decisi dunque di prendere con me il libro che stavo leggendo, un classico di quelli importanti e di grande mole, non ricordo quale fosse, forse era Musil oppure un russo. Insomma una di quelle letture che tutti abbiamo fatto e che non vanno ostentate perché non vi è alcun merito di originalità a esporle.
Uscito presto dall'albergo individuo un ristorante in Trastevere, abbastanza anonimo, uno di quelli che rimangono al di sotto del piano stradale. Vuoto. Bella forza, erano le sette e mezza. Entro e mi piazzo al tavolo e inizio a leggere il libro. Servizio lento. Alle otto non mi avevano portato da mangiare, ma in compenso iniziano ad arrivare frotte di clienti.
Capisco troppo tardi che ho valutato male, speravo in un ristorante silenzioso in cui mi potessi confondere con la parete. Invece i tavoloni sono di quelli collettivi, quindi mi si siedono a fianco altri clienti e io ficco il naso nelle pagine per non fare conversazione. La caciara aumenta di intensità e io fatico a concentrarmi su Musil, ma nondimeno ostento un disinteresse totale.
Entrano, e pare che tutti li attendessero perché vengono accolti da applausi e grida festanti, due suonatori con le chitarre, di quelli che cantano gli stornelli e le canzoni tipo "er barcarolo va contro corente" oppure "vecchia roma sotto la luna nun canti più".
Io sempre più incollato a Musil come se non ci fosse un domani, loro iniziano a girare per i tavoli e partono con gli stornelli. "Parapazun pazun pazun pazun pazun... e daie de tacco e daie de punta...". Schiamazzi e gridolini, pare che siano tutti siano lì per questo. Tranne io.
Sento che il pericolo diventa reale, e inizio a valutare la possibilità della fuga anticipata, ma essi sono già davanti a me. Tutti mi guardano e io so ora con certezza che verrò preso a bersaglio. Lo stornellista attacca l'arpeggio consueto: "parapazumpa zumpa zumpa zumpa...", mi guarda in faccia con l'aria da gattone e parte: "anvedì sto cojone... sta a legge' er libro...". Risata liberatoria dell'intero locale. Non ricordo le parole, ma in sostanza mettevano in discussione la mia virilità in quanto troppo interessato alla letturatura e dunque, per ferrea conseguenza logica, assai poco al coito.
Io abbozzo un sorriso amichevole del tipo "io ci ho il senso dell'umorismo, so stare agli scherzi" ma ho l'occhio spento. La cosa non dura neanche tanto poco. Io per tutto il tempo assumo l'espressione non intelligente di chi, dimenticato di chiudere a chiave, viene colto seduto sulla tazza all'apertura brusca della porta.
Alla fine, lo stornellista decide che ne ha abbastanza, si gira sui tacchi e passa a prendere di mira una ragazza grassa al tavolo a fianco, che inizia a ridere sguaiatamente. A quel punto mi alzo, pago in fretta alla cassa e fuggo come un ladro nella dolce sera romana.

In qualche modo riesco a concludere l'attività e torno a casa. Nei giorni successivi chiamo Fasciglione che appare molto contento di sentirmi. Gli chiedo se ha notizie, se ci sono stati "feedback" (all'epoca si usava molto meno di oggi l'inglese, ma feedback era una di quelle parole che erano già allora imprescindibili). Lui dopo un iniziale smarrimento, in cui pareva non capire di cosa parlassi, mi tranquillizza: "no, che novità? Tutto tranquillo qua... hai voja! Prima che attacchino a usà er programma ce passa un mare de tempo...".
In effetti il cliente Telecom (o era la Sip?) non era propriamente reattivo. Ci avevano fatto fretta perché realizzassimo questo programma, ma poi quando loro dovevano iniziare a utilizzarlo, come sempre, i tempi si dilatavano a dismisura. Passano parecchi mesi e io me n'ero dimenticato quasi. Poi un giorno mi chiama un Fasciglione in totale stato confusionale, per non dire di panico.
Cerco di tranquillizzarlo e gli chiedo di spiegarmi. "Qua non funziona' più 'na mazza...", capisco che in Telecom hanno iniziato a usare il programma e che ora la patata bollente tocca a lui.
"Stai tranquillo..." esordisco, perché lui appare irriconoscibile, tutta la sua imperturbabilità ha lasciato il posto a una grande agitazione. Parla in modo serrato, dandomi particolari irrilevanti su questo o quel dirigente "che s'è ncazzato de' brutto" e non mi lascia lo spazio per fargli le domande necessarie. Alla fine capisco che semplicemente si è dimenticato di far partire un pezzo del programma, il che mi sembra una buonissima ragione dell'apparente non funzionamento.
"Devi far partire l'applicazione!" gli urlo, ma lui quasi non mi sta a sentire: "O sai, io co 'ste cose nun ce mastico...".
"Senti..." gli dico, come se avessi a che fare con un bambino, "la vedi quell'icona sul desktop? Fai partire il programma!". Lui mi sbalordisce ancora perché pare non mettere in relazione l'icona del programma con il programma stesso. "Devi fare doppio click!" gli urlo, mentre lui sembra tarantolato e non mi ascolta.
Poi inaspettatamente inizia a realizzare. "Doppio click? E co' cché?".
A me cadono le braccia. Passo al romanesco per essere più comprensibile: "Ma come co' cché? Cor maus!"
Lui secco: "Er maus? Er maus qua nun ce sta. Se o so' fregato."
Non so come sia poi finita, Fasciglione avrà poi comprato un mouse di tasca sua per rimpiazzare quello aziendale che qualcuno si era fregato. Non sono mai più tornato in trasferta a Roma, e ho in seguito avuto sempre meno a che fare con i colleghi romani. Ma Fasciglione resta per me un mito inossidabile, una di quelle colonne portanti che hanno contribuito a far grande la mia ex azienda, Telecomitalia (o era la Sip?)

1 commento:

  1. Grandissimo... descrizione fedele delle mie trasferte romane, e anche di quelle a sud di Roma!

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