Partimmo dunque in una giornata fredda e umida con il treno da Padova (sono pochi chilometri) e poi ci avviammo a piedi verso lo stadio insieme a un colorito gruppo di tifosi.
Io non stavo praticamente nella pelle all'idea che di lì a poco avrei visto giocare i miei idoli: Mazzola, Corso, Jair, Boninsegna.
Ma non avevo fatto i conti con la nebbia, vero flagello delle giornate invernali dalle nostre parti, soprattutto a quel tempo, quando il riscaldamento globale era di là da venire.
Preso posto nei distinti - ed era la mia prima volta in uno stadio - attendevo con trepidazione, in piedi come tutti, allora non ci si sedeva, l'inizio della partita. Ero già altino, ma nel mio ricordo i nostri posti si collocavano quasi al di sotto del manto erboso, cosicché il fatto che del campo vedessi solo uno spicchio non destava in me preoccupazione. In qualche modo qualcuno avrebbe risolto il problema.
Dopo una serie di boati che mi sorpresero non poco (ne deducevo che i giocatori erano probabilmente entrati in campo) iniziai a dubitare un po'... ma come facevano i tifosi a vederci qualcosa? io non vedevo niente.
Ricordo lo sgomento che provai sentendo nitido il fischio d'inizio. La partita era cominciata, non avrei visto nulla.
Seguirono alcuni minuti allucinati, surreali, felliniani, in cui ogni tanto vedevo passare delle ombre indistinte. Sullo stadio era sceso un gran silenzio, rotto soltanto dal rumore attenuato del pallone calciato da qualche parte, sempre fuori dalla mia vista.

Di lì a poco la partita fu sospesa. La ripeterono due o tre settimane dopo, ma per me il fascino perduto del calcio, che ora non seguò più, si identificherà per sempre in quei brevi istanti.
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