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19 dicembre 2020

Kamikaze 5


 «Caro amico, come sta?» La voce che sento alle mie spalle ha un timbro familiare, mi volto ed ecco qui dopo tanto tempo il tizio che fa di professione il kamikaze. Gli occhi vispi e allegri sono inconfondibili, e la presenza della mascherina non mi impedisce di riconoscerlo al primo sguardo. 

«E' un bel po' che non ci si vede!» e lui: «Beh, l'ultima volta che ci siamo incontrati eravamo in piena prima ondata...». «Vero. Come se la passa?». 

Chissà perché mi aspettavo che per lui non fosse un gran periodo dal punto di vista lavorativo. «Niente male, niente male...» mi dice invece: «Il lavoro va a gonfie vele...». «Sono contento per lei, ma mi dica: la pandemia non la sta ostacolando a livello professionale?» «Beh, all'inizio sì... per noi kamikaze lo smart working non ha tanto senso, uno dei colleghi ci ha provato, ma ha avuto infinite noie con l'amministratore, volevano fargli pagare dei danni che non le dico, persino il rifacimento del tetto, che poi lui stava al primo piano, non le dico che incazzatura...» 

«E quindi, come tira avanti?» «Beh per lavoro uno può muoversi come gli pare. La cosa peggiore per noi kamikaze è doversi limitare agli obiettivi sensibili all'interno del proprio comune... sa, dopo un po' si è conosciuti, ti possono riconoscere... per fortuna che la mascherina ci aiuta molto...» 

«E quindi come fa?» «Beh, non ci sono mai stati tanti assembramenti come in questo periodo: metti per esempio le code all'aperto per fare gli esami del sangue, uno va lì, si fa un controllo che non fa mai male e intanto ne approfitta per lavorare un po'» 

Mi indica la coda per il tampone sul lato opposto della strada. «Ma ha la prenotazione?» «Certo, non sono mica uno sprovveduto, ormai ho maturato una lunga esperienza... lo dico senza falsa modestia: mi stimano molto anche i colleghi. Adesso mi hanno anche assegnato un'autobomba aziendale, tanto per dire che hanno apprezzato il mio lavoro...» «Sono felice per lei» 
«Ma sono quasi alle soglie della pensione, sa? Mi mancano solo pochi anni...» «Ah, io pensavo che voi kamikaze non aveste diritto alle pensione...» «Beh da un po' di tempo qualcosa si è mosso, io poi ho riscattato gli anni di califfato, sono stato previdente. Poi dicono che noi kamikaze non abbiamo la testa sulle spalle!».

Mi strizza l'occhio, mi saluta con la mano e si avvia verso la massa dei pazienti in attesa. Mi fa sempre piacere reincontrarlo. E' davvero un buon diavolo.

29 novembre 2020

Arancini amari

Più o meno all'epoca di questa foto, dove è ripreso felice tra mamma e papà, il piccolo Stefano si trovò un giorno a fronteggiare la prima dolorosa separazione della sua vita. Il luogo del delitto era un asilo infantile a circa un chilometro da casa: a distanza di tantissimi anni non è facile ricordare, ma gli resta una vaga immagine di un vialetto lungo e stretto che portava all'interno di una costruzione moderna e colorata, e una suora sorridente che accolse lui e la mamma che lo accompagnava. 
Lui del resto non era affatto spaventato, anzi era curioso di entrare in quello che si figurava essere una specie di paese dei balocchi e aspettava eccitato che la suora, che con tutta probabilità era la madre superiora, finisse di chiacchierare amabilmente con mamma. Ma improvvisamente si verificò qualcosa di totalmente inaspettato: all'epoca non esisteva il concetto di inserimento e mamma, sempre allegra e bellissima, lo prese in braccio, lo baciò e lo salutò sparendo dietro la porta a vetri. 
Il piccolo Stefano per alcuni secondi rimase incredulo, non aveva assolutamente capito che la presenza di mamma non fosse prevista per il resto della giornata né per i giorni a seguire. In quei pochi secondi egli passò dall'euforia alla disperazione più assoluta: presto iniziò a piangere e a urlare al mondo il proprio dolore: mamma non era mai stata nemmeno per un minuto lontana da lui finora. 
Il ricordo è a tratti confuso ma a tratti ancora nitidissimo: quello che accadde è che fu preso in consegna da un'altra suora, non la stessa che li aveva accolti: così come quella appariva elegante, signorile e autorevole, questa appariva più dimessa, forse lavorava in cucina perchè quando lo cinse cercando di calmarlo, il piccolo Stefano, con il naso schiacciato contro la tonaca, avvertì nettamente un forte odore di minestra e di mele. Il fatto è che lui non aveva alcuna voglia di calmarsi, anzi, più pensava alla sua situazione, più le urla aumentavano. 
La suora non sembrava affatto preparata ad un'eventualità simile, e tutto quello che seppe fare fu portarlo con sé in una specie di ripostiglio, un luogo che odorava di detersivi scadenti e di lucido da scarpe. Forse era lì che tenevano le provviste, può essere che la suora cercasse di calmarlo offrendogli qualche dolcetto, ma nel ricordo questo si è perduto. Tuttavia, se questa era l'intenzione, probabilmente non funzionò granché. 
E a quel punto, e qui il ricordo è nitidissimo, la religiosa ormai convinta che il piccolo fosse indemoniato, tentò una specie di esorcismo casalingo e gli ordinò di baciare il crocifisso che lei teneva al collo. Il piccolo Stefano sapeva di non avere alternative, non solo perché la suora era chiaramente più forte di lui, ma anche perché rifiutarsi di baciare il crocifisso sarebbe stato peccato mortale: questo, instintivamente, lo sapeva benissimo. Ancora oggi risente il contatto delle proprie labbra con il metallo freddo e umido di lacrime. 
Ora nuovamente il ricordo si fa confuso, ma in qualche modo l'esorcismo funzionò, non tanto per intercessione divina, quanto perché il piccolo Stefano ebbe la netta sensazione che non ci fosse da scherzare, avrebbe dovuto smettere di piangere o sarebbero stati guai seri per lui. Il dolore per il tradimento di mamma che l'aveva abbandonato non si era attenuato però, e per tutta la giornata le lacrime continuarono a sgorgare copiose. 
Ricevette una scodella di latte con orzo e del pane: lui che era un formidabile viziato mangiatore di latte e biscotti, ne fu disgustato. Più tardi a pranzo ebbe un arancino di riso, oleoso e quasi freddo, con il riso talmente impaccato in una sorta di palla collosa che pensò di vomitare tutto quello che aveva mangiato dalla nascita. 
Ancora oggi il signor Lazzaretto, che è una buona forchetta ed è sostanzialmente onnivoro, non riesce a tollerare gli arancini di riso, pur sapendo bene quanto possano essere prelibati se fatti come dio comanda. E ancora oggi egli non tufferebbe mai nemmeno una briciola di pane nel proprio caffelatte. Se invece il bacio al crocifisso sia parte in causa nel suo essere diventato ateo e insofferente ad ogni forma di liturgia, e non solo religiosa, egli non saprebbe dire, ma si augura di cuore che la pedagogia, nel frattempo, abbia fatto un netto miglioramento.

25 aprile 2020

Kamikaze 4

Oggi mi accorgo che, davanti a me in coda al supermercato, c'è quel tizio simpatico che di professione fa il kamikaze. Si gira, mi vede, fa l'occhiolino: capisco che mi sta sorridendo da dietro la mascherina. Realizzo però che, stranamente, non indossa la sua solita cintura esplosiva.
«E' da un po' che non la si vede in giro» dico.
«Amico mio, cosa vuole, questa pandemia è una catastrofe per il nostro settore. Mi dica: lei da quanto tempo è che non sente parlare di attentati suicidi?».
«In effetti...» commento «...è un'altra di quelle tradizioni storiche che purtroppo si vanno perdendo...»
«Han tagliato gli organici. Da quando sono vietati gli assembramenti non c'è lavoro. Io stesso sono stato messo in cassa integrazione a zero ore. E' solo questione di tempo: è la volta che mi tocca rimanere a casa» mi dice.
«Mi spiace davvero... e adesso cosa pensa di fare?».
«Sto faccendo dei colloqui...» mi dice con malcelato entusiasmo «... e ho buone chances di essere assunto come complottista, per ora con un contratto part-time, ma a tempo indeterminato.»
Io cado dalle nuvole, non sapevo di questa professione e gli chiedo spiegazioni.
«Ma sì, è un lavoro piacevole e per niente stressante, si fa interamente in smart working, basta una buona connessione Internet.»
«Ma quindi... mi scusi se banalizzo... si tratta semplicemente di diffondere fake news cospirazioniste? E la pagano per questo?»
«Certo, ma guardi che anche qui ci va un certo talento: bisogna selezionare continuamente, ci sono milioni di notizie, individuare quelle che funzionano di più dal punto di vista del marketing, quelle che hanno più presa, mi capisce?»
Annuisco.
«E bisogna continuamente stare al passo coi tempi. Insomma avrà visto anche lei che ogni giorno escono complotti nuovi... Devi tenerti sempre aggiornato... Ad esempio adesso va tantissimo il 5G, ma guai a fossilizzarti: rischi di rimanere tagliato fuori. Chiaramente puoi decidere di andare sul classico, è una scelta anche quella... i vaccini ad esempio: andranno sempre perché sono un prodotto senza tempo, ma ed esempio chi si è buttato sulle scie chimiche adesso fa la fame, non vanno più!»
Gli chiedo se si guadagna bene.
«Mah... alla fin fine dipende sempre dal target che uno si dà: c'è gente che fa la grana con questo lavoro. Io mi accontenterei di viverci decentemente.»
«Lei mi stupisce sempre» gli dico ammirato. «Ma chi sarà il suo datore di lavoro, se posso permettermi?»
«Non dovrei dirlo, loro non vogliono che si sappia. Ma lei mi è simpatico... l'azienda si chiama "Deep State" ma sarebbe in pratica un rebranding: una volta si chiamava "Poteri Forti", se la ricorda?»
«Il nome non mi è nuovo»
Mi sorride con complicità.
«A me piaceva il vecchio nome... ma capirà: l'inglese funziona di più, come un po' in tutto, del resto...»
Avrei ancora tante domande da fargli, ma dobbiamo salutarci: è arrivato il nostro turno. Ci salutiamo con cordialità rispettando il doveroso distanziamento sociale e in un attimo lo vedo sparire dietro il banco delle mozzarelle.

(Aprile 2020)

Kamikaze 3

L'altro giorno al mercato ho avuto di nuovo il piacere di scambiare due chiacchiere con quel tizio che di professione fa il kamikaze. Mi ha salutato con il solito calore, ma si vedeva che era sofferente, non capivo se per malessere fisico o per qualche conflitto interiore. Gli ho chiesto cosa avesse; mi aspettavo di sentirlo parlare di insoddisfazione lavorativa, o magari del senso di inutilità che ti prende dopo tanto tempo che ti fossilizzi nello stesso lavoro. Invece: «Amico mio, non me ne parli. La schiena mi fa impazzire, ho l'ernia del disco, una sciatica che non le dico. Dovrei stare a riposo, ma sa... noi kamikaze dobbiamo camminare in continuazione per cercare obiettivi sensibili... ad ogni passo è una fitta, una scossa elettrica fino al calcagno... e sì che io sono uno che di solito sopporta bene...». Dico: «Ma ha fatto gli esami?» «Come no, dentro e fuori dagli ambulatori, tempi di attesa, una barba» «E cosa dicono i medici?» «Cosa vuole che dicano... uno l'ernia se la tiene, si fa la sua ginnastichina e tanta pazienza» «E come fa col lavoro?» «Ah non posso certo stare in mutua! Nel nostro lavoro uno può crepare ma non ammalarsi. Meno male che adesso fanno queste cinture lombari che ti tengono ben dritta la schiena. E ti danno un minimo di sollievo.» E mi ha mostrato quella che sembrava una normale cintura lombare steccata, ma che a ben guardare, ospitava una serie di cilindri di metallo collegati a dei fili elettrici. Lui mi guardava con aria complice. «Ma non mi dica! Ha una cintura lombare esplosiva? Ma è geniale!» «Non lo dica a nessuno» mi ha risposto.  «All'organizzazione non piace, è poco virile... sa com'è... noi kamikaze siamo sempre costretti a mostrarci spietati, invincibili. Ma neanche noi siamo superuomini. Del resto io non saprei come fare altrimenti». Mi ha sorriso, gli ho dato una pacca sulla spalla, con delicatezza, e ce ne siamo andati, ognuno per la sua strada.

(Giugno 2017)

Kamikaze 2

Oggi in centro ho rivisto quel tizio che lavora come kamikaze. Mi ha riconosciuto e mi ha salutato con calore, ma ho visto subito era più mogio dell'altra volta. Gli ho chiesto: «Come mai è ancora in giro, non ha ancora trovato un obiettivo sensibile?» «Signor mio, non è un bel periodo, abbiamo una concorrenza spietata da parte dell'Islam» mi ha risposto. Ho convenuto che in effetti quelli dell'Islam sembrano più motivati, più entusiasti, insomma che ci credano di più. «Che lavoro fa lei, se posso permettermi?» Gli ho detto che lavoro in un'azienda privata. «Non vorrà mica dirmi che lei crede davvero che i prodotti della sua azienda siano migliori di quelli della concorrenza?» «Beh, no, che c'entra, il lavoro è lavoro, ce li si fa piacere per forza» «E anche per loro è uguale... sembrano più motivati perchè hanno un buon marketing... e poi niente da dire, sono trattati meglio come lavoratori, hanno più benefit nel dopolavoro. E non hanno praticamente pressione fiscale. A noi kamikaze italiani le tasse ci uccidono letteralmente...». Mi ha sorriso e ha aggiunto: «Ma insomma, bisogna essere ottimisti. Ho in mente un progettino per cui sentirà presto parlare di me» «Glielo auguro di cuore». Ci siamo salutati, l'ho visto con la coda dell'occhio che entrava in un centro commerciale e io me ne sono andato per la mia strada.

(Febbraio 2016)

Kamikaze 1

Oggi alla fermata parlavo con uno che di professione fa il kamikaze. Gli ho chiesto come andava. «Amico mio» mi ha risposto. «Questo è un buon periodo, c'è tanto lavoro, non discuto, ma consideri che noi abbiamo una carriera molto corta, come i calciatori, e dobbiamo darci da fare finché siamo giovani, e poi non c'è pensione, niente ferie pagate, non c'è malattia. Ora mi scusi, ma le consiglio di farsi un po' in là, che devo lavorare.»

(Novembre 2015)

05 aprile 2020

La Non Quarantena

Il Sig. Lazzaretto guardò ancora una volta la sua casa vuota con uno struggente desiderio di entrare e rimanerci rannicchiato dentro, al riparo da tutto. Da quando il governo aveva imposto il divieto di quarantena, nessuno poteva starsene nella propria casa e ognuno era costretto a vagare di abitazione in abitazione, occupando quelle degli altri e dormendo ogni notte in una casa diversa. 
A volte ti capitava una villa con piscina e parco, ma più spesso ti beccavi un miniappartamento periferico di 35 mq con annessi tre bambini frignanti e un cane puzzone. Il Sig. Lazzaretto sapeva che il vorticoso cambio di domicilio era essenziale per arginare il diffondersi del virus, ma nondimeno sentiva sempre più il peso di dover utilizzare ogni giorno lo spazzolino di un altro, leggere libri di altri che lo disgustavano e per di più da una pagina imprecisata, non potendo mai conoscerne l'inizio. Ma la cosa che più lo deprimeva era l'obbligo di creare assembramento nel parco, con gli altri runners. Questo proprio non poteva sopportarlo.




La Quarantena

22 gennaio 2028: Il Sig. Lazzaretto, da poco alzatosi dal letto, guardò dalla finestra la strada deserta. Vide con la coda dell'occhio un vicino affacciarsi alla finestra della casa di fronte, ma non ricordava se fosse qualcuno che aveva già conosciuto o uno nuovo.
Non c'era modo di saperlo, quindi decise che non era importante. Da giorni stava arrovellandosi nel tentativo di ricordare come mai a nessuno fosse consentito di uscire dalla propria casa.
C'era stato un tempo in cui si poteva fare, di questo era certo: ricordava distintamente di avere raggiunto lui stesso la città più a valle, forse anche più volte in passato. Certo non ricordava il nome della città, ma certi angoli, certe piazze, certe vie larghe e dritte lungo le quali si ergevano palazzi signorili erano nettamente impressi nella sua memoria. Peccato non poterci tornare...
Del resto quei signori alla TV erano stati molto chiari: stare in casa. Il Sig. Lazzaretto non aveva mai avuto l'impulso di violare la direttiva, ma pensò che gli sarebbe stato più facile accettarla se avesse trovato una risposta al suo interrogativo: c'era una ragione precisa per cui non si potesse uscire? Eppure era convinto che in passato, si intende molto tempo prima, la ragione gli fosse nota. In ogni caso adesso non ricordava.
Una guerra magari. Ecco, forse era radioattività? Un'esplosione nucleare che aveva reso il mondo esterno impraticabile. Poco plausibile: non gli era stato detto nemmeno di tenere le finestre chiuse. E poi, se davvero ci fosse stato un fall-out nucleare, sarebbero morti già tutti, lui compreso, e compreso il vicino di fronte.
Un'epidemia? Possibile, ma non gli veniva in mente né quale malattia, né se qualcuno di quelli che conosceva fossero stati contagiati. Lui di sicuro non ricordava di essere stato malato.
Magari il vicino di casa ne sapeva di più, ma come fare a chiederglielo? Lo vedeva sempre per pochi secondi e non era mai nemmeno accaduto che avessero incrociato lo sguardo. Gli capitava di vederlo in particolare al mattino. Decise che l'indomani avrebbe provato ad attirare la sua attenzione.
Ecco, si sentì molto sollevato, aveva finalmente trovato qualcosa da fare, adesso si trattava solo di capire come. Ma il Sig. Lazzaretto non se ne preoccupò: avrebbe avuto molto tempo davanti per capirlo.

12 gennaio 2020

Il Pubblico del Jazz



Introduzione

A ciascuno di noi sarà capitato prima o poi di partecipare come spettatore a un concerto di jazz. Non parlo ovviamente dei concerti a teatro, ma piuttosto delle semplici esibizioni di complessini jazz nei locali cittadini, spesso durante la cena in ristoranti o in club. Questo breve compendio ha lo scopo di minimizzare il disagio che voi spettatori dovrete normalmente subire durante l'esibizione di jazzisti che, disturbando con la loro musica la vostra conversazione, potrebbero, se non opportunamente tenuti a bada, rendere estremamente sgradevole la vostra serata fra amici.


L'approccio psicologico

Innanzitutto è opportuno sapere che i jazzisti, a dispetto dell'apparenza, sono persone dall'animo semplice e gentile. Di conseguenza provare ad entrare in sintonia con loro è solitamente un'idea migliore che cercare un aperto dissidio. Per cominciare, se state cenando in un locale e vi sono dei jazzisti che pretendono di esibirsi vicino al vostro tavolo, è opportuno sapere che, se muoverete ritmicamente la testa fingendo di seguire il ritmo per qualche secondo con finta espressione rapita, darete al jazzista l'illusione che state apprezzando la sua musica, cosicché lui vi qualificherà come pubblico non ostile e nutrirà verso di voi un piccolo debito di gratitudine che potrà durare anche parecchi minuti.

Tempistiche di conversazione

Avete mai fatto caso che nel jazz vi sono dei momenti in cui la musica è forte e veloce, o addirittura frenetica, e altri in cui invece i jazzisti suonano musica più lenta e a basso volume? Questi momenti, solitamente chiamati "ballads", costituiscono certamente una ghiotta occasione per conversare con i vostri vicini di tavolo. Il massimo, secondo gli esperti, sarebbe approfittare dei cosiddetti "assoli di contrabbasso". NB: se non siete sicuri di poter riconoscere il contrabbasso, sappiate che si tratta di quel violino molto grande che non si capisce a cosa serva. Dal momento che invece la normale conversazione sarà  difficoltosa durante i pezzi più veloci e rumorosi, voi ne approfitterete per dar sfogo agli schiamazzi liberatori e ai rituali cori sportivi, ma cercando sempre di non esagerare con le vostre urla, per il dovuto rispetto verso i musicisti. Va da sé che riserverete invece le conversazioni intime ai momenti musicali più pacati.


Il ritmo del jazz

Tutti sanno che il jazz può essere trascinante per via del suo ritmo, anzi si potrebbe dire che il ritmo del jazz giustifichi in parte tutte quelle note astruse e per lo più francamente noiose. Farete la felicità del jazzista in sala se, occasionalmente, accompagnerete con il battito delle mani il fluire della musica. Ovviamente, anche se può sembrare una banalità, il clap va fatto in questo modo: "UNO!" (due) "TRE!" (quattro). Questo aiuterà il jazzista a improvvisare con maggiore lena e fluidità. In aggiunta, potrete ottenere un effetto molto suggestivo se con le posate sui bicchieri cercherete di simulare il caratteristico modo di percuotere le percussioni da parte del batterista: con un po' di esercizio sarete senz'altro in grado di creare una bella sinergia con i musicisti, che non mancheranno di farvi capire il loro apprezzamento con sorrisi e strizzatine d'occhio. Infine, se avete dei bambini con voi, lasciateli liberamente circolare tra gli strumenti. I bambini saranno naturalmente attratti da tamburi e piatti della batteria e cercheranno di percuoterli durante le più infuocate sessions con grande soddisfazione dei musicisti, che di solito amano molto questo tipo di attenzioni da parte dei più piccini. 

Conclusioni

Sono semplici trucchi, vorrei quasi dire piccole astuzie, ma potranno davvero cambiare il vostro atteggiamento nei confronti del jazz perché non sarete mai più costretti a dovervi rivolgere al gestore affinché faccia zittire i musicisti, cosa sempre spiacevole e francamente di cattivo gusto. Buon ascolto a tutti!