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24 giugno 2017

Novelle del Trapasso 1: Reincarnazione Maldestra

Il sig. Alfonso Barrantes, trentottesima reincarnazione dell'alchimista Jacobus De Brimonia, che aveva maturato la capacità di reincarnarsi all'istante in chicchessia si trovasse alla sua portata visiva, giunto all'età di 57 anni e provando nostalgia per le antiche giovanili spinte ormonali, desiderò per una frazione di secondo di iniziare testè la propria prossima vita nel corpo di un bel giovane sconosciuto, che stava pedalando con lena di fronte a lui. Proiettato sulla bicicletta sgangherata in movimento, prima che si rendesse conto di avere già impegnato l'incrocio fu travolto dal 37 barrato.

Il suo ultimo pensiero, anziché cercare di trovare un immediato sostituto nelle vicinanze, nei secondi decisivi che gli restavano, fu: "stavolta ho fatto una cazzata".

Autobio 5: Trasferta Romana

Poteva essere il '92 o il '94: lunga trasferta a Roma per lavorare a un progetto di Telecomitalia (o forse era ancora la Sip?). Mai piaciuto viaggiare per lavoro, sono pigro, detesto mangiare da solo nei ristoranti.
Ricordo che al mattino mi presentavo all'ingresso di questa vetusta sede nella zona di Campo de Fiori per un ipotetico appuntamento col mio uomo di riferimento in Telecom (o era la Sip?).
Prima difficoltà: attirare l'attenzione della signora che stava alla guardiola, la quale, impegnata perennemente in dissertazioni culinarie telefoniche, evitava di guardarmi per non doversi interrompere. Dopo una decina di minuti mi chiedeva con aria annoiata: "Lei?", e io facevo tutte le volte il nome del collega, tale Fasciglione mi pare, ma forse confondo con qualche altro conosciuto all'epoca.
Per inciso i colleghi romani erano visti sempre con diffidenza da noi "torinesi", in quanto li giudicavamo indolenti, insomma non parevano granché interessati alla tematica tecnica e, mentre noi in trasferta cercavamo disperatamente di affrettare il lavoro per abbreviare la permanenza fuori casa, loro parevano non comprendere la nostra ansia. Oppure a volte parevano capirci sì, ma più per naturale bonaria empatia: il lavoro per loro non era mai fonte di stress.
Anche la signora alla guardiola sembrava non capire. Non capiva perché io volessi incontrare questo tizio e soprattutto come mai pretendessi di incontrarlo a quell'ora del mattino. Dopo una decina di minuti di attesa però, impietosita dal mio rimanere impalato davanti a lei, o forse seccata che io potessi rimanere a sentire la sua prossima telefonata, mi indicava la strada verso il laboratorio, dove c'era il "computer".
Verso le dieci e mezza arrivava trafelato il Fasciglione. Io solitamente stavo già lavorando da un po' e lui si sentiva in obbligo di accampare scuse sempre diverse per il suo ritardo: "er traffico, co' sto giubbileo ce sta 'n traffico... tutto bloccato... nun te poi immagginà...". Un secondo dopo però mi chiedeva con aria sorniona: "Già preso er caffè?" e mi portava in un bar di via Giulia che, a suo dire, era l'unico che sapeva fare un espresso come si deve.
Si facevano dunque le undici, le undici e un quarto. Lui iniziava a intuire che io potessi sentirmi in ansia. Lo capivo perché immancabilmente partiva una raffica di rassicurazioni: "comunque, oggi... finito o non finito, le sette? Le otto? annamo avanti a oltranza, che qua mica ce possiamo rilassà...".
Ma trascorsi dieci minuti: "beh però mo' s'annamo a magnà quarcheccosa... ce sta un posticino qua vicino...". E si andava in una trattoria da quelle parti, che nel mio ricordo poteva chiamarsi "er Trucido", ma sicuramente il nome vero non era questo. Il pasto ci portava via una bella oretta abbondante, il quartino di vino innaffiava bucatini succulenti e io dovevo fare appello alla mia forza di volontà per rifiutare l'ammazzacaffè che mi avrebbe steso.
Alle due e mezza si rientrava e ci si sedeva al computer.
Il Fasciglione aveva a quel punto l'occhio a mezz'asta e io, che avevo pietà della cecagna che vedevo crescere in lui, non potevo certo pretendere che la sua attenzione fosse totale. Lui simulava maldestramente un certo interesse nelle cose che io gli dicevo, ma poi immancabilmente, se gli argomenti si facevano complessi, tentava di rallentare il ritmo: "piano piano che me sta a scoppià 'a testa...".
Del tutto immune da qualsiasi accenno di competitività e desiderio di autoaffermazione, non si faceva scrupolo di sminuire le proprie capacità con frasi tipo "io, lo sai, de ste cose nun ce mastico...".
Alle tre e mezza, quattro meno un quarto iniziava ad agitarsi, si assentava per una telefonata e poi tornava con aria colpevole e contrita: "no, siccome che ce stà n'amico mio che ci ha un problema, nun ho capito bene, ma me sa che me tocca d'annà via. Ma tu poi restà, nun te fà problemi". Io acconsentivo e lui, felice che io non gli avessi creato grane, si illuminava come un cane che ha appena fatto i bisogni. Mi salutava con calore e mi diceva: "oh, intendiamoci, domattina mica come oggi, io posso sta' qua anche prima dele nove, famo otto e mezza? Anche le otto...". Io a quel punto gli chiedevo il piacere di attendermi fino alle nove, lui era comprensivo: "e vabbè, famo alle nove"
L'indomani tutto si ripeteva paro paro, come in "Ricomincio da capo".

La cena solitaria nelle lunghe trasferte è il momento più penoso della giornata per chi non ama viaggiare da solo. Di solito mi sedevo in un ristorante anonimo, dando la schiena alla parete e osservavo i clienti. Per pura noia cercavo di carpire brandelli delle loro conversazioni, ma poi fatalmente quelli finivano per scoprire che li stavo guardando e ciò creava reciproco imbarazzo.
Una sera decisi dunque di prendere con me il libro che stavo leggendo, un classico di quelli importanti e di grande mole, non ricordo quale fosse, forse era Musil oppure un russo. Insomma una di quelle letture che tutti abbiamo fatto e che non vanno ostentate perché non vi è alcun merito di originalità a esporle.
Uscito presto dall'albergo individuo un ristorante in Trastevere, abbastanza anonimo, uno di quelli che rimangono al di sotto del piano stradale. Vuoto. Bella forza, erano le sette e mezza. Entro e mi piazzo al tavolo e inizio a leggere il libro. Servizio lento. Alle otto non mi avevano portato da mangiare, ma in compenso iniziano ad arrivare frotte di clienti.
Capisco troppo tardi che ho valutato male, speravo in un ristorante silenzioso in cui mi potessi confondere con la parete. Invece i tavoloni sono di quelli collettivi, quindi mi si siedono a fianco altri clienti e io ficco il naso nelle pagine per non fare conversazione. La caciara aumenta di intensità e io fatico a concentrarmi su Musil, ma nondimeno ostento un disinteresse totale.
Entrano, e pare che tutti li attendessero perché vengono accolti da applausi e grida festanti, due suonatori con le chitarre, di quelli che cantano gli stornelli e le canzoni tipo "er barcarolo va contro corente" oppure "vecchia roma sotto la luna nun canti più".
Io sempre più incollato a Musil come se non ci fosse un domani, loro iniziano a girare per i tavoli e partono con gli stornelli. "Parapazun pazun pazun pazun pazun... e daie de tacco e daie de punta...". Schiamazzi e gridolini, pare che siano tutti siano lì per questo. Tranne io.
Sento che il pericolo diventa reale, e inizio a valutare la possibilità della fuga anticipata, ma essi sono già davanti a me. Tutti mi guardano e io so ora con certezza che verrò preso a bersaglio. Lo stornellista attacca l'arpeggio consueto: "parapazumpa zumpa zumpa zumpa...", mi guarda in faccia con l'aria da gattone e parte: "anvedì sto cojone... sta a legge' er libro...". Risata liberatoria dell'intero locale. Non ricordo le parole, ma in sostanza mettevano in discussione la mia virilità in quanto troppo interessato alla letturatura e dunque, per ferrea conseguenza logica, assai poco al coito.
Io abbozzo un sorriso amichevole del tipo "io ci ho il senso dell'umorismo, so stare agli scherzi" ma ho l'occhio spento. La cosa non dura neanche tanto poco. Io per tutto il tempo assumo l'espressione non intelligente di chi, dimenticato di chiudere a chiave, viene colto seduto sulla tazza all'apertura brusca della porta.
Alla fine, lo stornellista decide che ne ha abbastanza, si gira sui tacchi e passa a prendere di mira una ragazza grassa al tavolo a fianco, che inizia a ridere sguaiatamente. A quel punto mi alzo, pago in fretta alla cassa e fuggo come un ladro nella dolce sera romana.

In qualche modo riesco a concludere l'attività e torno a casa. Nei giorni successivi chiamo Fasciglione che appare molto contento di sentirmi. Gli chiedo se ha notizie, se ci sono stati "feedback" (all'epoca si usava molto meno di oggi l'inglese, ma feedback era una di quelle parole che erano già allora imprescindibili). Lui dopo un iniziale smarrimento, in cui pareva non capire di cosa parlassi, mi tranquillizza: "no, che novità? Tutto tranquillo qua... hai voja! Prima che attacchino a usà er programma ce passa un mare de tempo...".
In effetti il cliente Telecom (o era la Sip?) non era propriamente reattivo. Ci avevano fatto fretta perché realizzassimo questo programma, ma poi quando loro dovevano iniziare a utilizzarlo, come sempre, i tempi si dilatavano a dismisura. Passano parecchi mesi e io me n'ero dimenticato quasi. Poi un giorno mi chiama un Fasciglione in totale stato confusionale, per non dire di panico.
Cerco di tranquillizzarlo e gli chiedo di spiegarmi. "Qua non funziona' più 'na mazza...", capisco che in Telecom hanno iniziato a usare il programma e che ora la patata bollente tocca a lui.
"Stai tranquillo..." esordisco, perché lui appare irriconoscibile, tutta la sua imperturbabilità ha lasciato il posto a una grande agitazione. Parla in modo serrato, dandomi particolari irrilevanti su questo o quel dirigente "che s'è ncazzato de' brutto" e non mi lascia lo spazio per fargli le domande necessarie. Alla fine capisco che semplicemente si è dimenticato di far partire un pezzo del programma, il che mi sembra una buonissima ragione dell'apparente non funzionamento.
"Devi far partire l'applicazione!" gli urlo, ma lui quasi non mi sta a sentire: "O sai, io co 'ste cose nun ce mastico...".
"Senti..." gli dico, come se avessi a che fare con un bambino, "la vedi quell'icona sul desktop? Fai partire il programma!". Lui mi sbalordisce ancora perché pare non mettere in relazione l'icona del programma con il programma stesso. "Devi fare doppio click!" gli urlo, mentre lui sembra tarantolato e non mi ascolta.
Poi inaspettatamente inizia a realizzare. "Doppio click? E co' cché?".
A me cadono le braccia. Passo al romanesco per essere più comprensibile: "Ma come co' cché? Cor maus!"
Lui secco: "Er maus? Er maus qua nun ce sta. Se o so' fregato."
Non so come sia poi finita, Fasciglione avrà poi comprato un mouse di tasca sua per rimpiazzare quello aziendale che qualcuno si era fregato. Non sono mai più tornato in trasferta a Roma, e ho in seguito avuto sempre meno a che fare con i colleghi romani. Ma Fasciglione resta per me un mito inossidabile, una di quelle colonne portanti che hanno contribuito a far grande la mia ex azienda, Telecomitalia (o era la Sip?)

11 giugno 2017

Novelle del Trapasso 2: Cammelli e Peccati

Ci fu un momento in cui Juan Ramón Bergara, ricchissimo uomo d'affari e devoto praticante, iniziò a sentirsi prossimo alla morte e fu dunque preso dall'angoscia profonda di non essere ammesso al Regno dei Cieli. Ossessionato dalla nota metafora del Vangelo secondo Matteo, fece portare nella propria camera da letto un cammello di piccola taglia e una serie di aghi di varie dimensioni e iniziò a valutare quali fossero le probabilità che il cammello passasse nella cruna di uno di essi. La sua idea era che, se fosse riuscito in quell'impresa, per logica conseguenza si sarebbe aperto per lui uno spiraglio di salvezza.
Tuttavia gli fu quasi subito chiaro che non vi era la minima possibilità che il cammello si mostrasse collaborativo, anzi la bestia iniziò a scagazzare ovunque rovinando irreparabilmente un prezioso tappeto Isfahan e un'ottomana Luigi XV. Spazientito e sfiduciato, il Signor Juan Ramón stava per prepararsi al peggio, quando ebbe una folgorazione, un'idea geniale che però aveva il pregio della semplicità e che si rivelò vincente: chiamò a sé il proprio notaio di fiducia e intestò i propri peccati a un cugino nullatenente di Almerìa. In questo modo, nel lasciare di lì a poco la vita terrena, dopo essersi assicurato l'appoggio di un paio di funzionari di medio livello dell'Aldilà con altrettante dosate regalie, ottenne rapidissimamente l'agognato lasciapassare.

Autobio 4: La Mucca Carolina

A sette anni, come tutti i bambini dell'epoca, passavo molto tempo nel giardino di casa. Giocavo per lo più da solo, ma a volte non disdegnavo, per noia, la compagnia del moccioso mio omonimo che viveva nella casa a fianco. Lui era più piccolo, poteva avere quattro anni. I grandi  ci invitavano caldamente a giocare insieme, ma ognuno rigorosamente nel proprio giardino. E dunque noi giocavamo separati da una rete metallica.
Nelle ore calde del primo pomeriggio estivo, quando i genitori pisolavano a letto dopo abbondanti libagioni, io mi dovevo ingegnare a inventare dei giochi da fare con Stefanino (il diminutivo era necessario per distinguerlo dal sottoscritto). Ero consapevole del mio ruolo di leader e esercitavo il comando con fermezza ma anche con bonarietà. Dunque, dopo mangiato, chiamavo a gran voce il mio compagno di giochi e lui si presentava immancabilmente al suo posto dall'altra parte della rete.
Un giorno però Stefanino se ne esce trascinando con sé un oggetto ingombrante, totalmente inatteso: capisco immediatamente, e con angoscia, che si tratta proprio della mucca Carolina, gadget favoloso e vero e proprio oggetto del desiderio per i bambini dell'epoca. Si vinceva con la raccolta punti Invernizzi, acquistando grandi quantitativi di formaggini e di burro Milione. Per me era totalmente fuori portata: io ero figlio unico e sapevo bene che non ce l'avrei fatta mai a mangiare abbastanza formaggini. Lui invece era di famiglia numerosa, aveva fratelli più grandi, evidentemente divoratori di formaggini Milione.
Fu proprio questa ingiustizia sociale a far scattare in me un'invidia irrefrenabile. Che fare? Tentare di rubargliela? Inutile, i grandi mi avrebbero sgamato subito. Decisi che se io non potevo averla, non avrebbe dovuto averla neanche lui. Lo stronzetto pareva aver intuito il flusso angoscioso dei pensieri che mi stavano frullando per la testa e iniziò a farsi bello esibendosi in un'ostentata serie di esercizi ginnici a cavallo della mucca che riuscirono a farmi uscire dai gangheri.
Subdolamente però mantenni la calma e cercai di giocare d'astuzia. Convinsi dunque il poppante che sarebbe stato divertente lanciarsi la mucca da una parte all'altra della rete. Il mio piano era ovviamente provocare l'accidentale foratura della mucca al contatto con gli spuntoni metallici che la rete portava alla sommità. Valutai rapidamente le conseguenze del mio gesto: Stefanino avrebbe forse frignato un po', ma io non sarei potuto essere ritenuto responsabile dell'increscioso incidente.
Il bimbetto accettò come sempre di buon grado di giocare. La cosa proseguì per un bel po': ci lanciammo la mucca per molti minuti. Essa colpiva sì gli spuntoni, ma il suo modesto peso era probabilmente insufficiente alla realizzazione del mio scopo.
Capii che la cosa sarebbe andata avanti all'infinito e che tra poco il lattante avrebbe reclamato la mucca, se ne sarebbe rientrato a casa e io sarei rimasto a rodermi per l'invidia. Toccava decidere rapidamente. All'ennesimo lancio della mucca dalla mia parte della rete, capii che i mali erano estremi e quindi dovevano esserlo anche i rimedi. Entrai in casa e mi procurai un minuscolo coltellino a serramanico, un coltellino dalla lama cortissima e nemmeno affilata, credo non più 3 o 4 centimetri, che avevo trovato qualche tempo prima.
Nascondendo il coltellino nella mano, mi presi un certo tempo per esaminare con attenzione e con piglio scentifico la mucca. Stefanino, leggermente allarmato, piagnucolava e chiedeva di ridargliela. Ad un tratto con la freddezza di un killer piantai il coltellino nelle morbide carni gommose della mucca, che iniziò a sgonfiarsi con un sibilo sinistro. Il moccioso iniziò a urlare come posseduto dal demonio e io mi resi conto istantaneamente di avere fatto una cazzata, perché con la coda dell'occhio vidi mio padre uscire in giardino proprio in quel momento. Evidentemente la mia nefandezza  era stata troppo scoperta, perché non gli ci volle neppure un secondo per capire l'enormità del mio gesto: si fece consegnare il coltellino che io penosamente tentavo di occultare e me le diede di santissima ragione.
Il dolore fu cocente, perché mio padre non mi aveva praticamente mai gonfiato e anche negli anni a venire ciò sarebbe avvenuto assai di rado. Stefanino per alcuni giorni mi evitò, ma poi col tempo la cosa fu dimenticata. Un giorno vidi che, con la nuova raccolta punti, aveva ricevuto in regalo Susanna tutta panna, altro pupazzo gonfiabile Invernizzi. Lui, a scanso di equivoci, la tenne sempre a debita distanza dalla rete. Ma chissenefregava: quella era roba da bambinette, vuoi mica mettere la mucca Carolina?

Autobio 3: Ruffatto

Mi sembra fosse il '76 o forse il '77. Interminabile assemblea di istituto al Liceo Scientifico Enrico Fermi di Padova. Caldo, lieve sudore, schiamazzo, fumo, canne, anfibi, eskimi, gonne fiorate, zoccoloni. Si discuteva non so perché della destinazione d'uso della palestra, che avrebbe richiesto non so quale intervento di recupero. Interventi fiume di compagni che spiegavano la funzione di aggregazione della palestra intesa come luogo, o forse non luogo, non ricordo.
Si alternavano per lo più oratori in stato di ebbrezza, appartenenti alle tre liste di istituto più rappresentative, ovvero quella più a destra, assimilabile al PCI e le altre due, che chiamerò per semplicità Maoisti Metropolitani e Trotskisti Irridentisti, tanto per dare dei nomi.
Il tono della discussione era volutamente lontano da ogni parvenza di concretezza e meno che mai ci si proponeva di formulare uno straccio di progetto praticabile. Al contrario si giocava di fioretto su una notevole varietà di spunti di discussione, alcuni dei quali, con un adeguato approfondimento, avrebbero potuto in seguito diventare dei concetti, o addirittura delle idee. Da ore però la discussione languiva, complice anche l'aria satura dei vapori di cannabis.
A un certo punto, con nostra sorpresa, guadagnò il microfono una studentessa che conoscevamo appena, grembiule nero, aspetto sobrio da suora laica, pelle lucida con comedoni, capelli neri opachi leggermente unti con scriminatura centrale. L'assemblea si zittì, pur con l'inerzia causata dal torpore collettivo e a poco a poco si capì che avevamo di fronte un essere alieno, forse appartenente all'ambiente cattolico di cui si favoleggiava l'esistenza. Un essere insomma mai visto prima, che prese ad esporre, a nome di un gruppo studentesco mai sentito che pareva tuttavia fare riferimento alla Democrazia Cristiana, un concreto progetto, di cui pochissimi capirono qualcosa, ma che a me piace ricordare come un ingegnoso meccanismo semovente su rotaie che avrebbe consentito di trasformare alla bisogna la palestra in una qualche altra cosa che mi sfugge.
Iniziò a salire un certo brusio di disapprovazione, ma tale era la sorpresa che qualcuno avesse realmente pensato di dare un contributo concreto, che il dissenso rimase tutto sommato confinato sotto pelle. Fu a quel punto che la studentessa, allo scopo di rendere più credibile la propria proposta, asserì che il gruppo studentesco di cui era portavoce aveva già contattato un professionista che avrebbe di lì a poco spiegato i dettagli realizzativi della palestra semovente.
E godendosi il piacere di dosare l'attesa che prelude la chiamata dell'ospite d'onore, come fosse una presentatrice consumata, usando una di quelle abusate formule tipo: "è con vero piacere che...", "non mi resta che chiamare...", "siamo onorati di avere con noi..." chiamò a parlare, ricordo questo nome come fosse ora, l'architetto Ruffatto.
Lo stupore collettivo raggiunse un livello inimmaginabile quando da un punto imprecisato al centro della sala si materializzò un omino sorridente, dal piglio deciso che si diresse determinato verso il palco. Era la prima volta che sentivamo il nome dell'architetto Ruffatto, e così credo fosse per l'intera assemblea. L'omino aggiustò il microfono e iniziò a leggere da un plico in cui si intravvedevano disegni. Nessuno fiatava, non tanto per rispetto, né tanto meno per una qualche forma di interessamento alle questioni tecnico pratiche, quanto per la piega surreale che l'incontro assembleare aveva preso.
E finalmente, a normalizzare la situazione, fu il guizzo di un genio. Non erano passati più di trenta secondi dall'inizio dell'esposizione del progetto, che dal centro dell'assemblea, non so come sia stato possibile, si sollevò uno striscione di notevoli dimensioni vergato da sapienti mani che portava la scritta in caratteri rossi: RUFFATTO MERDOSO SARAI APPESO. Fu un attimo. L'architetto vacillò e perse sicurezza. L'assemblea capì che la vittoria era alla portata. Alte grida si levarono, ostili ma anche liberatorie, unite a ingiurie irripetibili. L'architetto fuggì come un ladro. Della palestra semovente su rotaie non si fece più nulla.

Autobio 1: Facchetti

Era il 19 dicembre 1971. Stavo per compiere tredicianni e mio padre, mai interessatosi di calcio, mi fece il grande regalo di portarmi in trasferta a Vicenza, allo stadio Menti, per Lanerossi - Inter.
Partimmo dunque in una giornata fredda e umida con il treno da Padova (sono pochi chilometri) e poi ci avviammo a piedi verso lo stadio insieme a un colorito gruppo di tifosi.
Io non stavo praticamente nella pelle all'idea che di lì a poco avrei visto giocare i miei idoli: Mazzola, Corso, Jair, Boninsegna.
Ma non avevo fatto i conti con la nebbia, vero flagello delle giornate invernali dalle nostre parti, soprattutto a quel tempo, quando il riscaldamento globale era di là da venire.
Preso posto nei distinti - ed era la mia prima volta in uno stadio - attendevo con trepidazione, in piedi come tutti, allora non ci si sedeva, l'inizio della partita. Ero già altino, ma nel mio ricordo i nostri posti si collocavano quasi al di sotto del manto erboso, cosicché il fatto che del campo vedessi solo uno spicchio non destava in me preoccupazione. In qualche modo qualcuno avrebbe risolto il problema.
Dopo una serie di boati che mi sorpresero non poco (ne deducevo che i giocatori erano probabilmente entrati in campo) iniziai a dubitare un po'... ma come facevano i tifosi a vederci qualcosa? io non vedevo niente.
Ricordo lo sgomento che provai sentendo nitido il fischio d'inizio. La partita era cominciata, non avrei visto nulla.
Seguirono alcuni minuti allucinati, surreali, felliniani, in cui ogni tanto vedevo passare delle ombre indistinte. Sullo stadio era sceso un gran silenzio, rotto soltanto dal rumore attenuato del pallone calciato da qualche parte, sempre fuori dalla mia vista.
Poi, ad un tratto, un'apparizione. La palla era uscita in fallo laterale alla mia altezza. E dietro di essa, apparve enorme, altissimo, muscoloso come un cavallo da corsa, Giacinto Facchetti. Mi parve che dai suoi muscoli uscisse del vapore, e che lo squarcio nella nebbia lo provocasse lui, con la sua tremenda energia di atleta. Lo vidi calciare in bello stile, una-due volte e mi sorprese il fruscio che il pallone faceva sull'erba ben tagliata. Poi, come era apparso, Facchetti sparì.
Di lì a poco la partita fu sospesa. La ripeterono due o tre settimane dopo, ma per me il fascino perduto del calcio, che ora non seguò più, si identificherà per sempre in quei brevi istanti.

Autobio 2: Mangiaracina

Potevo avere sette-otto anni. Io e un gruppo di amichetti giocavamo spesso in una viuzza dietro casa, e su un lato di questa viuzza c'era un campetto abbandonato e semicoperto da erbacce. Noi per la verità di solito giocavamo a palla in uno spiazzo cementato adiacente perché il campetto era inutilizzabile per quello scopo. Tutt'al più un luogo dove nascondersi quando ci andava di giocare un po' a nascondino.
Un giorno arrivò un signore di mezza età, un tipo pelato e corpulento, dall'aria decisa. Ho ancora perfettamente nitido nelle orecchie il suo modo di parlare: un curioso italiano con cadenza veneta acquisita sovrapposta ad accento smaccatamente siciliano. Ci colpivano e ci facevano ridere quei fonemi inusuali, come certe 'tr' che diventavano 'c', o certi raddoppiamenti fono sintattici perfettamente leciti, ma ridicoli se combinati alla nenia tipica padovana. Diceva di essere l'avvocato Mangiaracina, che gli dispiaceva vederci giocare nello spiazzo di cemento quando il campetto adiacente sarebbe stato perfetto. Diceva che, se lo avessimo aiutato a togliere le erbacce, ci avrebbe pensato lui a mettere le porte e tutto il resto e che avrebbe volentieri giocato poi con noi.
Non ricordo esattamente quanto tempo passò, forse qualche settimana, poi un pomeriggio primaverile l'avvocato Mangiaracina arrivò con attrezzi da giardinaggio e c'erano anche altri signori, evidentemente anche loro desiderosi di costruire il campo di calcio.
Lavorammo di buona lena; noi bambini eravamo per lo più adibiti a riempire dei sacchi di iuta con gli sfalci che venivano accumulati in un grande mucchio. L'avvocato si dava da fare, in canottiera e calzoni da lavoro sembrava il Mussolini che trebbia nei filmati luce, ma forse sto semplicemente confondendo, nel ricordo epico, le due pelate.
Ricordo anche che, sul far della sera, sul campetto ora perfettamente liberato dalle erbacce, si giocò una partita di calcio. Era praticamente un'anteprima perché le porte non c'erano ancora. L'avvocato tirò due calci al pallone soffiando come una vaporiera, ma il tutto non durò granché: faceva buio e poi si era davvero stanchi. Ricordo che andai a dormire soddisfatto e, prima di addormentarmi, fantasticai non poco su come sarebbe stato bello giocare vere partite nei giorni a venire, con i pali della porta in legno, la rete, l'arbitro.
Qualche tempo dopo, trovammo però il campetto recintato da una rete metallica. C'erano anche degli operai che lavoravano alle fondamenta di quello che sembrava un edificio, chiedemmo spiegazioni, ma nessuno sembrava sapere cosa stessero costruendo proprio sul terreno di gioco.
Raramente vedemmo di lì in avanti l'avvocato Mangiaracina, perché di solito entrava e usciva con una macchinona dal garage della villetta, ma una volta, quando qualcuno cercò di dirgli che non si era comportato bene, lui si inalberò immediatamente: mandò via a malo modo il mio amico e lo guardò con occhi di fuoco, e la pelata lucida intimidiva davvero: sembrava Mussolini quando dichiara guerra agli ambasciatori di Francia e di Inghilterra.
Ma forse sto semplicemente confondendo nel ricordo epico le due pelate.

Extra 2

In questi giorni d'estate, e parlo ovviamente per i nostri emissari che sono di stanza nell'emisfero nord di Terra, avrete notato che gli individui della specie dominante di quel pianeta tendono a fare un uso particolarmente intenso della tavoletta votiva. Come ci spiega il professor XG246H, i terrestri amano molto stazionare sulla battigia nelle zone in cui l'accesso al mare è comodo. Benché siano animali a sangue caldo, essi amano molto riscaldarsi al sole in sostanziale inattività: la tavoletta votiva è qui usata in modo massiccio. Oltre al normale rituale di picchiettamento che tutti conoscono, si potrà osservare frequentemente un secondo rituale, il cui significato è oscuro: uno o più individui, raggiunto preferibilmente un punto panoramico, si sottopongono, da soli o vicendevolmente, alla cosiddetta "imposizione della tavoletta". Si tratta di un rituale ancora inspiegato, ma facilmente descrivibile: l'imposizione si effettua semplicemente orientando la tavoletta in modo il più possibile parallelo al muso dell'individuo e mantenendola in tale posizione per alcuni secondi.
E' stato verificato sperimentalmente dal professor XG246H che la distanza tra il muso e la tavoletta non dovrà mai scendere al di sotto di una cinquantina di centimetri. Di conseguenza, qualora l'individuo sia in solitudine, esso allungherà l'arto superiore il più possibile per raggiungere la distanza target dal proprio muso. Qualora gli individui siano più d'uno, invece, uno di essi si incaricherà solitamente di imporre la tavoletta agli altri. In tal caso la distanza di imposizione sarà aumentata in modo grossolanamente proporzionale al numero di individui oggetto dell'imposizione.
Nel caso in cui gli individui siano pochi, e molto frequentemente nel caso di due soli individui di sesso diverso, il maschio (o uno degli individui dominanti) imporrà la tavoletta all'intero gruppo e contemporaneamente a se stesso. In questo caso, data la difficoltà di raggiungere la distanza target, potrà essere utilizzata una sorta di prolunga metallica.
Al termine dell'imposizione, che, come già spiegato, dura alcuni secondi, quasi tutti gli individui osserveranno da vicino la tavoletta, fingendo di vedere in essa qualcosa di divertente. Non di rado si creerà tra loro una sorta di ilarità.
Si tratta certamente di un rituale di accoppiamento, conclude il professor XG246H, e a confermare questa tesi si veda il fatto che molti individui di sesso femminile durante l'imposizione assumono innaturali posizioni del corpo oppure modificano vistosamente la forma dell'orifizio più grande che i terrestri hanno sul muso. Anche all'osservatore meno smaliziato questi atteggiamenti non possono che ricordare un cnwein77 oppure un dfs84, ma è bene non farsi illusioni: i terrestri non hanno una vita sessuale normale come la nostra: basti dire che procreano in totale assenza di hvre117.

Extra 1

Molti dei nostri emissari inviati su Terra ci chiedono se, con la semplice osservazione esterna degli esemplari della specie dominante che popola quel pianeta, esista un metodo sicuro per riconoscere gli individui più giovani da quelli più anziani. Stiamo ovviamente parlando degli individui adulti, datosi che i cuccioli sono immediatamente riconoscibili in quanto notevolmente più piccoli.
Secondo il parere autorevole del professor XG246H, è un errore voler dedurre l'età del terrestre basandosi sulla quantità di peli che sono visibili sull'estremità superiore del soggetto. Questa valutazione si è rivelata spesso erronea e fuorviante.
Un metodo quasi infallibile consiste invece nell'osservazione del modo in cui l'individuo manipola la tavoletta luminosa votiva che ogni terrestre ha in dotazione. Come sapete, lo scopo di tale tavoletta è ancora non del tutto compreso, ma nondimeno ci dà un'indicazione abbastanza attendibile sull'età del soggetto. Se l'individuo tiene la tavoletta con entrambi gli arti superiori e, con il primo dito di entrambi gli arti, picchietta molto velocemente la superficie della stessa, gli studi statistici del professor XG246H provano in modo inequivocabile che l'esemplare sarà giovane.
Al contrario, individui più maturi o anziani impugneranno la tavoletta con uno solo degli arti, e con il secondo dito dell'arto libero, effettueranno ugualmente i picchiettamenti, ma questi saranno solitamente più lenti e apparentemente più impacciati. L'apparente contraddizione per cui il processo di crescita produce un rallentamento delle facoltà cognitive anziché un suo potenziamento è perfettamente spiegabile secondo il professor XG246H: non dobbiamo pensare che la tavoletta abbia una funzione di utilità. Si tratta invece di un complesso di gesti rituali che provano certamente l'esistenza di una forma di intelligenza primitiva, ma a tali gesti irrazionali non vanno attribuite logiche evolute simili alle nostre. Fa dunque parte del rituale la simulazione da parte degli individui maturi di una sorta di impaccio dettato dall'immaturità, come per evocare ad arte la giovinezza perduta. Tale rituale è particolarmente evidente nei soggetti più anziani, i quali fingono di non saper ancora utilizzare i diti e dunque non effettuano picchiettamenti, ma si limitano ad avvicinare la tavoletta agli orifizi che i terrestri hanno alla loro estremità superiore, senza apparente scopo, proprio come farebbe un nostro cucciolo alle prese con un semplice oggetto di uso quotidiano come un wurxfges o un kjsdyuf.