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08 agosto 2024

Un Quartin de Terón

"Lei come si chiama?"
"Lazzaretto"
"Nazareno?"
"LAZZARETTO... Due zeta e due ti"

Il cognome che porto non mi ha mai messo a disagio per l'etimologia certamente non edificante, quanto perché devo sempre specificare: "con due zeta e due ti". Se non lo faccio, di solito viene trascritto come "Lazzareto", o "Lazareto". Un tempo provavo a dire: "Sa? Come nei Promessi Sposi? Il lazzaretto...?", ma di solito intravedevo il vuoto interstellare negli occhi di chi avevo davanti e dunque ho definitivamente rinunciato alla citazione letteraria affatto chiarificatrice. 
Nella mia città natale, Padova, Lazzaretto è però un cognome diffuso, nessun dubbio che le mie origini siano di lì, dal lato paterno. C'erano parecchi parenti a testimoniarlo, come la sorella di papà, Elena, la mia unica vera zia, simpatica e burbera, viaggiatrice e teatrante. 
E poi la mia nonna paterna, Maria, che non aveva perso le abitudini contadine, cenava alle sei di sera e teneva in casa una gallinella da uova, che io stavo ore a cercare di ipnotizzare imponendo al volatile le mani in un modo che avevo appreso chissà come e che tuttavia sembrava ottenere un discreto successo.
C'era stata per la verità anche un'altra sorella, Rosa, ma era morta giovane e di lei conoscevo solo un paio di fotografie. Ho un vago ricordo anche di qualche cugino di mio padre e più indietro nel tempo altre figure sbiadite di parenti più alla lontana, che non saprei nominare. 
Da parte di mamma, tutto invece era meno chiaro. Mia madre figlia unica. Mia nonna materna morta prima che nascessi. E poi c'era il nonno materno, Giovanni, che di cognome faceva Matera, un cognome che tradiva origini lontane. Lui sarà il vero protagonista del mio racconto, in quanto è lui che mi ha regalato il mio quarto meridionale o, detta nel mio dialetto, il mio "quartin de terón". 

Matera Giovanni negli anni '50
Matera Giovanni era un nonno bello, elegante e raffinato, dagli occhi verdi chiari. Era un grande esperto di automobili, almeno quanto mio padre le detestava, e si presentava a casa dei miei sempre in doppiopetto, cappello di paglia e bastone. Aveva addosso un gradevole profumo di acqua di colonia e faceva il baciamano alle amiche di mia madre: tutte ragioni per cui era molto ammirato. Sapevo a malapena di lui che era di Lagonegro, in provincia di Potenza: il suo accento smaccatamente meridionale, ma piuttosto nobile, come talvolta sono gli accenti del sud, a me sembrava strano e un po' ridicolo, abituato com'ero all'accento veneto se non al dialetto. Allora non ci facevo caso, ma, a pensarci, Matera Giovanni era davvero un pesce fuor d'acqua: come mai non c'erano altri parenti di giù? Di solito i "teroni" avevano sempre pletore di parenti, fratelli, zii, ma lui no. Per la verità una persona c'era: tale Teresa, di cui non ricordo nemmeno il cognome. Matera Giovanni conviveva con questa Teresa e con il marito di lei, tale Silvio, un contadino buono e semianalfabeta dall'accento veneto fortissimo, formidabile mangiatore di tagliatelle al ragù, sempre in canottiera e con due occhi sporgenti che lo facevano somigliare a Louis Armstrong in versione bianca.
La Teresa, come veniva chiamata a casa mia, si riferiva a Matera Giovanni con il termine "mio zio", benché nessuno conoscesse il loro reale grado di parentela. Si sapeva solo che era originaria della stessa zona del nonno. Lo strano trio viveva non lontano da casa nostra e dunque non di rado capitavano da noi. 
Moira Orfei
Io però molto mi vergognavo della zia Teresa, perché, tanto Matera Giovanni era raffinato, tanto la Teresa era esteticamente ridicola e rozza. Era bassa e larga, coi capelli corvini, pittata come Moira Orfei e tremendamente ignorante, storpiava tutte le parole e sembrava una caricatura da tutti i punti di vista.
Di tutte le zie vere o finte - e quasi tutte le amiche di mia madre lo erano - la Teresa era l'unica cui mi ero affezionato ben poco, e che mi dava disagio. Crescendo, poi, iniziavo a provare vera irritazione quando la vedevo arrivare a casa. E del resto non sembrava che i miei avessero di lei un'opinione migliore. 


Ho pochi ricordi, ma molto peculiari delle nostre visite a casa di Matera Giovanni e C. La tavola la ricordo sempre occupata da farina, uova e mattarello. La Teresa tirava la pasta con indiscutibile maestria, dovendo placare la fame atavica di Silvio, che a tavola affrontava con gioia terrine gigantesche di tagliatelle al ragù. 
Di Silvio ricordo che teneva una piccola conigliera in giardino e un giorno mi propose di assistere all'esecuzione di uno dei conigli. Io, che avevo forse sette anni, accettai dapprima con curiosità, ma poi ne fui inorridito e mi misi a piangere. Silvio, di indole contadina e privo di empatia verso gli animali, ingenuamente pensò che fossi impressionato perché il povero coniglio aveva rilasciato le sue feci nell'esalare l'ultimo respiro, mentre io semplicemente avevo percepito la sofferenza della bestia e ne avevo avuto paura. 
Dei tre conviventi, Matera Giovanni in realtà era quello che si faceva vedere di meno, si sapeva che lavorava come autista e arrivava sempre con macchine diverse, talvolta anche molto belle. 
Gli anni passarono e, direi intorno ai miei diciott'anni, Matera Giovanni si ammalò e cessò di farsi vedere a casa nostra. I dolori alla gamba, che lo avevano per anni costretto al bastone, si estesero a tutte le sue ossa e iniziò un lungo calvario, sotto il vigile controllo della Teresa. Mia mamma contestava apertamente la decisione apparentemente illogica di quest'ultima di curarlo a casa, e ogni giorno andava a trovare il padre morente, per cui tra le due donne si creavano continue e violente discussioni. 
Io ammetto che ero poco interessato, o meglio fuggivo istintivamente lo spettro della morte imminente, come fanno tutti i giovani a quell'età. In pratica, salvo un paio di fugaci visite a casa loro in cui mi parve di avere di fronte uno scheletro, mio nonno non lo vidi più. 
E venne il giorno del funerale. 

Era un giorno di pioggia, credo fosse novembre, c'era parecchia gente che non conoscevo. Il feretro era nella camera del nonno, c'era il parroco per benedire la salma. La Teresa lanciava altissime urla, si strappava i capelli, sembrava tarantolata. Mia madre la guardava con fastidio, mio padre fingeva di non vederla e non sentirla. Lei faceva tutto il repertorio di "Ma perché mi hai lasciato?", "Come faccio io adesso?" con voce resa rauca dal troppo urlare, ma c'era un'evidente nota falsa nella sua presunta sofferenza. Persino il prete a un certo punto tentò di zittirla, perché si potesse procedere alla benedizione e alla chiusura della bara per poi partire in corteo verso la chiesa vicina. 
Durante la celebrazione della messa, che io ascoltavo distrattamente pensando ai fatti miei, qualcosa attirò la mia attenzione. Il prete, nel nominare i familiari orbati, disse testualmente: "i figli..." e seguì un elenco di tre, Maria, Rosa e Antonio. Poi, fatta una breve pausa, aggiunse una seconda Maria, che io intuii essere mia madre, ben distinta dagli altri tre. Io guardai mia madre con aria interrogativa e lei annuì con la faccia di chi vuole minimizzare: "poi ti spiego". Durante il resto della cerimonia, non riuscivo a pensare ad altro e, una volta tornati a casa dal cimitero, mia madre mi disse: "non te ne avevo mai parlato, ma adesso ti racconto tutto". 
Non era la prima volta che mia mamma mi faceva rivelazioni epocali: lei era di due anni più grande di mio padre, ma mi aveva sempre fatto credere di avere quattro anni di meno, in modo che fosse lui a risultare più grande di due. Un giorno, verso i miei dodici anni, per caso vidi la sua carta di identità e le chiesi spiegazioni sulla data di nascita riportata. Lei ebbe la faccia tosta di dirmi che il documento era sbagliato e io le credetti, anche se ero un po' scettico. Ammise la piccola bugia solo qualche anno dopo. 
Ma tornando ai fatti in questione, mia madre mi fece sedere, mi chiese di prendermi del tempo e iniziò a raccontarmi la vera storia di Matera Giovanni. 

Matera Giovanni nel 1918
Dunque, ecco la narrazione di mia mamma, al meglio di come la ricordo. E' la primavera del 1918 e la Grande Guerra infuria. Matera Giovanni, ventottenne di stanza in Veneto, incontra, non sappiamo come, Giulia Dovis, una sartina diciassettenne di Padova. Matera Giovanni è bellissimo e Giulia se ne innamora perdutamente. Ovvio che la sua mamma, la mia bisnonna Giovannina, la mette ripetutamente in guardia: "non sta' a fidarte de quel Giovanni, el xe uno che vien dale tere balerine...". La terminologia ora è desueta ma ovviamente fa riferimento ai frequenti terremoti che colpiscono il sud, vedi quello terrificante di Messina nel 1908. Tra l'altro, secondo l'Accademia della Crusca, il termine "terrone" parrebbe venire proprio dalle terre ballerine. 
In ogni caso le raccomandazioni non vanno a buon fine: si sa che a quell'età la passione è travolgente e irrefrenabile, così, di lì a poco, Giulia resta "inguaiata". Nel racconto di mia mamma la cronologia non è del tutto chiara, ma sta di fatto che a un certo punto Matera Giovanni, deciso a portare Giulia all'altare, fa ritorno al paese per i documenti necessari. Peccato però che non si decida a rientrare. 
A novembre viene firmato l'armistizio a Villa Giusti, proprio nelle vicinanze di Padova, sottoscritto dal comandante del VI Corpo d'Armata austro-ungarico, il generale Weber Von Webenau, e dal generale Pietro Badoglio, Maresciallo Generale del Regno d'Italia. La Grande Guerra, almeno per l'Italia, finisce. Di Matera Giovanni però non vi è traccia, se non per qualche lettera in cui lui giura che è questione di giorni. Giulia aspetta con fiducia, ma ormai è al settimo mese e, preso coraggio, si reca all'anagrafe di Padova, o non so in quale altro ufficio pubblico dell'epoca, chiedendo informazioni. Non sappiamo se sospetti qualcosa o sia totalmente ignara di cosa l'aspetta, ma qui riceve la notizia ferale: Matera Giovanni è già sposato, ha moglie a Lagonegro e pure due figli. 
Giulia

A questo punto della narrazione, mia mamma dà il meglio della sua indole drammatica e racconta che Giulia, sotto choc e in preda alla disperazione, sviene proprio alla sommità dello scalone interno al palazzo e rotola giù. Soccorsa, ha immediatamente le doglie e il 5 dicembre del 1918 dà alla luce mia madre, settimina. Questa scena di grande suggestione, degna di un film dell'epoca del Muto, la riporto per completezza, ma non posso giurare sulla sua verosimiglianza. 

La piccola Maria
Quello che è certo però che Matera Giovanni, non privo di senso dell'onore, è deciso a riconoscere la creatura. In quegli anni però non era facile riconoscere un figlio illegittimo, ma in questo caso viene usato un escamotage che ha dell'incredibile: mia madre è registrata come Maria, figlia di Matera Giovanni e di NN, negando perentoriamente il principio del diritto secondo cui "mater semper certa est, pater numquam". 
Non so se fosse allora una pratica diffusa, ma tant'è. E non credo sia un'invenzione di mia madre, perché, da questa dicitura sui documenti, lei dovette trarre molta sofferenza, in quanto oggetto di scherno non solo da parte dei compagni di scuola, ma anche degli insegnanti. Siamo in piena era fascista, del resto. 

Ma torniamo ai fatti. Matera Giovanni, non insensibile al destino di Giulia e della piccola Maria, ed evidentemente sempre più infelice con la moglie legittima, rimugina sull'idea di lasciare il paese natale e di tornare a Padova. E' vero che, durante la permanenza in Lucania, non perde l'occasione di mettere al mondo il quarto figlio, ma ciò non implica che a un certo punto non ricompaia magicamente a Padova. Non da solo, bensì con tutta la famiglia al seguito. 
Non mi è chiaro se la moglie all'epoca sappia di Giulia e della bambina, ma mi verrebbe da supporre di sì. In ogni caso mio nonno viene assunto come autista alle dipendenze del conte Antonio Dolfin, erede di uno dei più nobili e antichi casati veneziani. Anche la moglie diventa parte della servitù, cosicché tutti alloggiano nella dependance di una delle ville del conte. 

Mamma e nonna con
cagnolino (anni '20)

Nel frattempo Giulia e la piccola Maria, iniziano una lunga e penosa peregrinazione: secondo la narrazione di mia mamma, le due, anzi tre, perché c'è pure la mia bisnonna Giovannina, sono costrette a cambiare di frequente casa perché, non appena si viene a sapere che Giulia è una ragazza madre, vengono sfrattate. Non so quante volte ciò succeda davvero, perché c'è sempre da considerare la tendenza alla drammatizzazione di cui mia madre è specialista, tendenza che lei eserciterà per tutta la vita e che, per inciso, provocherà sempre in mio padre, uomo di indole più allegra, la stessa peculiare reazione, tra il divertito e lo sconsolato: "Maria, mòleghela de far palco!" (Trad. "Smettila di fare teatro"). 
Sono invece abbastanza certo che Matera Giovanni, ora che guadagna a sufficienza per mantenere due famiglie, offra un sostanzioso aiuto economico alle tre donne. A scanso di equivoci però, Giulia, donna molto intraprendente e bravissima sarta, a poco a poco inizia a creare un piccolo atelier che riscuoterà negli anni a venire un certo successo a Padova, con un bel numero di ragazze come dipendenti. Si può immaginare che lei sia conscia della situazione precaria e che voglia raggiungere una certa indipendenza economica, cosa che le riuscirà perfettamente negli anni a venire. 

 Adesso, per una volta, sarò molto preciso perché ho ritrovato un documento interessante tra le vecchie carte di famiglia. Il 29 ottobre 1932, Matera Giovanni e la moglie stipulano una "Privata Convenzione" secondo cui, sussistendo la separazione personale di fatto, benché non omologata da alcuna Sentenza di Tribunale, dichiarano e confermano di voler rimanere separati. 

In questo documento si dice che Matera Giovanni continuerà a convivere con la Signora Giulia Dovis fu Marco, senza che la moglie possa promuovere azione alcuna e si fissano i termini economici con cui mio nonno si impegna a mantenere la moglie e due dei figli avuti con lei, dato che nel frattempo la primogenita si è coniugata. Questo "continuerà a convivere" proverebbe che ad un certo momento Matera Giovanni abbandona la moglie e si trasferisce a casa di Giulia, anche se non sappiamo quando ciò avvenga di preciso.
La convivenza però non dura a lungo. Giulia ha ormai parecchie ragazze che l'aiutano nella sua attività, e ha molti clienti anche facoltosi da seguire. Accetta di prendere a lavorare con lei persino le due figlie di primo letto di lui, a testimonianza della sua buona volontà e anche del successo della sua attività. Ma si può immaginare che Giulia abbia i suoi grattacapi e sia sempre meno premurosa nei confronti di Matera Giovanni. Quest'ultimo, peraltro, la combina grossa perché giunto ormai alla mezza età, inizia a circuire le numerose ragazze dell'atelier e pare che venga colto in flagrante con una di esse. Non so per certo se sia questa la ragione per cui lui e Giulia si separano definitivamente, ma in ogni caso il loro rapporto era ormai alla fine. 

Scoppia la seconda guerra mondiale e qui perdo di vista per un po' la storia di Matera Giovanni. Le tre donne continuano a vivere dal sole in una bella casa del centro di Padova. Dopo l'8 settembre ospitano anche due sfollate dal centro Italia, una signora di mezza età e la nipote. Sono due donne molto distinte che però hanno comportamenti strani, la zia sembra disperarsi ogniqualvolta la nipote tarda a rientrare dal lavoro. Inoltre, durante gli allarmi aerei, le due restano chiuse in casa e non vanno al rifugio antiaereo, che, per inciso, è sotto la sede di un Comando Tedesco in Piazza Spalato, a due passi da casa.
 
Un rifugio antiaereo di Padova
Sembra incredibile che mia mamma e mia nonna non avessero nemmeno lontanamente intuito la ragione di tutta quella paura, ma mia madre giurava che solo alla fine della guerra verranno a sapere che erano due ebree, grazie a una lettera di ringraziamento. Che naturalmente è andata persa, ed è un vero peccato perché si fornivano particolari su chi fossero realmente le due donne: c'era di sicuro una relazione di parentela molto stretta di una delle due donne con Elsa Morante: una sorella? Una zia? La stessa Morante?
Quest'ultima ipotesi, talvolta fattami balenare da mia mamma, è certamente da escludere, ma tant'è: mia madre non ricordava altro. Del resto all'epoca la scrittrice era poco conosciuta, se non in quanto moglie di Moravia. 
Il fatto che due ebree abbiano preso alloggio a pochi metri dal Comando Tedesco sembra una scelta incosciente, a meno che non fosse diabolicamente calcolata. Incoscienti del tutto invece mia mamma e Giulia, se si pensa alle possibili drammatiche conseguenze nel caso le due ospiti fossero state scoperte. 

Arriva nel frattempo anche il 25 aprile, che poi a Padova si protrae fino al 27, e la guerra finalmente ha fine. 
Mia madre negli anni '40
Mia madre ha iniziato a uscire con mio padre, è molto ben vestita, date le capacità sartoriali di Giulia. Mio padre, un po' meno. Ha appena partecipato all'insurrezione partigiana e non ha grandi risorse economiche. Però un episodio sicuramente consolida la loro relazione. Durante i giorni di confusione seguiti alla liberazione, mentre stanno passeggiando per il centro, si imbattono in un plotone di esecuzione improvvisato: lui viene scambiato per un ex gerarca fascista e viene messo al muro, tra le urla di mia madre. Sarà salvato in extremis da un altro partigiano, che lo aveva conosciuto durante la clandestinità e che testimonierà per lui. Mi immagino un dialogo del tipo: "Fermi! Sto qua no'l xe miga Ghizzolini! El xe Lasareto, el xe uno dei nostri!". "Ah sul serio? Scusa tanto Lasareto! Ghemo sbajà de persona. Cossa vuto? Xe robe che poe capitare...". 

Mio padre nel '46
L'ultima cosa che dice la vecchissima nonna Giovannina prima di lasciare questo mondo sono parole di disapprovazione per la scelta sentimentale di mia mamma: "El xe un contadin! E un fasiolo, per quanto che'l boje, el resta sempre un fasiolo!" (Trad: "Per quanto lo si faccia bollire, un fagiolo resta sempre un fagiolo").

Insomma c'era un problema di status sociale: mia madre, ormai superato il trauma del suo essere figlia di NN, era una elegante signorina del centro. Mio padre, veniva dalla campagna, ovvero da una zona della città che adesso è considerata semicentrale e residenziale, ma allora troppo periferica per la bisnonna Giovannina. Però anche stavolta il parere della vecchia resterà inascoltato. Si sposeranno cinque anni dopo, nel 1950. 

Mia madre attorno al '50
Gli anni quaranta sono quelli in cui le vicende di Matera Giovanni mi sono più sconosciute. Questo fatto ha una sua logica, perché mia madre si affaccia alla vita adulta e ha minore attenzione per lui. Non so esattamente quando ma ci sono alcuni episodi che non so collocare nel tempo: la morte della prima moglie in primis. E anche la fine dell'impiego come autista presso il conte Dolfin. Per il resto della sua vita lavorativa mio nonno sarà alle dirette dipendenze di un imprenditore nel ramo degli pneumatici, dove sfrutterà le sue competenze di lunga data in fatto di automobili. 





Nel 1950 Matera Giovanni non è più un giovanotto, ha circa sessant'anni. Probabilmente, dato che all'epoca per un uomo essere single era quasi inconcepibile, lui inizia a pensare che sia giunto il momento di trovare qualcuno che si prenda cura di lui. Le due donne più importanti del suo passato non sono più disponibili, per motivi diversi. E allora tenta la carta dell'amore filiale: chiede formalmente a mio padre di prenderlo in casa con lui e mia madre, novelli sposi. Mio padre, direi abbastanza saggiamente - e del resto mia madre stessa, pur non esplicitando troppo la sua posizione, si trova d'accordo - gli risponde: "Signor Giovanni, lei ha già combinato abbastanza guai. Non credo sia una buona idea...". 

Non so quanto Matera Giovanni abbia patito questa decisione. Ma bisogna riconoscere che, negli accadimenti che seguono, darà il meglio di sé. Al paese natale individua una lontana parente, una giovane di circa venticinque anni e la fa emigrare a Padova offrendole vitto e alloggio. In cambio lei si occuperà delle sue necessità pratiche, una specie di cameriera o di badante anticipata. Lui del resto è ancora super attivo. La giovane non è certo una bellezza, ma appunto è giovane e lui non più tanto. 
Mia mamma è sempre stata reticente nei confronti delle avventure sessuali di Matera Giovanni, incluse le tresche con le ragazze dell'atelier di qualche anno prima. Queste cose infatti non le ho sapute da lei, ma da Luciana, amica da sempre di mia mamma e di zia Elena, e dunque una delle mie più care zie acquisite. Non è però difficile credere che Matera Giovanni e la giovane emigrata abbiano una relazione.
Secondo i racconti di Luciana, la giovane è talmente gelosa che nottetempo va a imbrattare con epiteti ingiuriosi il campanello di Giulia, da lei considerata una specie di rivale, per quanto in disarmo, ma soprattutto rea di avere disonorato la famiglia di giù. Ebbene, non è difficile capire che questa giovane gelosa altri non è che la famigerata Teresa, all'epoca sperabilmente un pochino meno grottesca di quando l'ho conosciuta io, ma sicuramente già combattiva e determinata. La Teresa, inoltre, non vuole che Matera Giovanni frequenti la figlia di secondo letto, tanto più che questa ha opposto il gran rifiuto: "Non l'avete voluto con voi? Adesso non lo vedete più". 

Eccomi con mamma nel 1962
Passano altri anni, siamo nel 1956, e Giulia scopre di avere un cancro in fase avanzata. Viene operata senza successo e, fin da subito, è chiaro che la sua aspettativa di vita è brevissima. Non si può fare altro che somministrarle la morfina per contrastare gli atroci dolori e aspettare. Mia madre, che l'assiste giorno e notte, maturerà un vero e proprio terrore nei confronti di quel male lì, al punto da sospettare frequentissimamente di esserne affetta negli anni a venire ad ogni minimo sintomo nuovo. Non morirà di quello, se la cosa può interessare. Presto arriva l'inevitabile fine di Giulia e mia madre, che in fondo ha vissuto in simbiosi con lei quasi tutta la vita, ne è devastata. Ma la vita continua e finalmente, dopo un paio di tentativi andati a vuoto, due anni dopo metterà al mondo il primo e unico figlio. Una primipara che ha già compiuto quarant'anni non è cosa che si vede tutti i giorni a quel tempo, anche se mia mamma sembra davvero molto più giovane nelle foto con me piccolino. 





Negli anni in cui abbiamo un po' perso di vista il protagonista del mio racconto, c'è un fatto nuovo da segnalare. La Teresa, probabilmente per i sopraggiunti limiti di età di "suo zio", come lei lo chiamava, decide che è ora di accasarsi per davvero.
Louis Armstrong
Dunque, al suo fianco fa la sua comparsa, in un momento che non conosciamo di preciso, il buon Silvio, il Louis Armstrong bianco, mangiatore di tagliatelle, che la porta all'altare. Ma questo non significa che Matera Giovanni sia abbandonato a se stesso: i due sposi lo prendono in casa con loro. La Teresa rinfaccerà sempre a mia mamma questa differenza: "voi l'avete lasciato solo come un cane, ma io no". 
Eccomi con Matera Giovanni nel '60
Tuttavia, secondo mia mamma, la mia nascita contribuirà a creare un minimo di disgelo nei rapporti tra le due fazioni: Matera Giovanni vuole conoscere il nipotino e anche la Teresa, che per inciso non avrà mai figli, ne è desiderosa. Ora i tre abitano non lontano da casa nostra e si stabilisce quel tipo di relazione parentale che ho conosciuto io da bambino e che ho descritto all'inizio del mio racconto. 

Matera Giovanni è ormai un distinto settantenne, ma mantiene viva la sua passione per le auto. Mio padre invece odia guidare e non avrà alcuna auto fino al '65, quando si deciderà a comprare usata la mitica Fiat 850 blu detta "Azzurra" che poi erediterò io a diciott'anni e guiderò fino alla completa disgregazione. Si capisce dunque come il nonno sia felice di scarrozzarci in giro con le sue belle auto: darei per certa una Alfa Romeo Giulietta berlina grigia e una Fiat 1500 blu scuro, ma ero molto piccolo e potrei non essere preciso. 
Una volta avuta anche noi l'auto, giocoforza queste gite in auto col nonno si diradano. In ogni caso, Matera Giovanni continuerà a guidare fino ai suoi 85 anni: le sue auto andranno via via rimpicciolendosi fino ad arrivare all'ultima, una Fiat 126 bianca, con cui lui, spesso con la Teresa e talvolta anche Silvio, vengono di frequente a casa nostra, annunciati da una sequenza riconoscibile di colpetti di clacson. Mia madre in questi casi corre alla finestra per vedere in quanti siano. La sua reazione può essere infastidita ("Ecola, ghe xe anca la Teresa") oppure sollevata ("Manco male, no la ghe xe"). 

La foto più recente che ho
di Matera Giovanni
(anni '70,
(eccezionalmente in
tuta da lavoro)

Uno stupido incidente con torto, una mancata precedenza, per fortuna senza conseguenze sulle persone, metterà fine attorno al 1975 alla pratica di guida del nonno, il quale non sopporterà l'idea di aver commesso un errore così marchiano e, demolita la 126, non guiderà mai più. Ma, sempre secondo mia madre, ciò lo manderà in depressione. 

E stiamo per giungere all'epilogo amaro di questa lunga storia di famiglia. Ho già raccontato la malattia e la morte di Matera Giovanni, ma posso fornire alcuni particolari sull'accorta gestione della fine di mio nonno, da parte della Teresa. Dunque, come si poteva supporre, la Teresa, che già disponeva interamente della pensione di vecchiaia dello "zio", approfittando dello stato penoso in cui questi versava, riuscì sul letto di morte a farsi intestare tutte le sue proprietà. 
Non so assolutamente a quanto ammontassero, ma credo non fossero del tutto trascurabili. So per certo che l'unica eredità che mia madre ha avuto dl padre è una cassapanca del '700 che mio nonno, a sua volta, aveva avuto in dono dal conte Dolfin. Questo fu possibile solo perché mio nonno la regalò ai miei quando era ancora vivo, altrimenti la Teresa se la sarebbe tenuta di sicuro. 

La sapiente manovra di aggiramento dell'asse ereditario compiuta dalla Teresa aveva come fondamento centrale il controllo assoluto dei rapporti tra mio nonno e mia madre. Qualora Matera Giovanni fosse stato ricoverato in ospedale, mia madre, in un momento di distrazione della Teresa, avrebbe potuto convincere il padre morente a modificare la disposizione dei suoi averi. Ecco perché era necessario che il povero Matera Giovanni fosse tenuto segregato in casa, senza le necessarie cure palliative, cosa che mia madre, che invece non manifestò alcun interesse nemmeno alla quota di legittima, provò a contestare senza successo. 
Se qualcosa finì ai tre figli di primo letto, non è cosa che saprei dire, ma giurerei che la tignosa Teresa non abbia mollato l'osso nemmeno con loro. 

Dopo i pianti e gli strepiti al funerale, la Teresa si riprese peraltro in gran fretta dalla perdita incolmabile. Con lei e con Silvio, come si può immaginare, i nostri rapporti si diradarono in fretta. Ben presto i due comprarono un grande appartamento, molto più consono alla nuova posizione sociale, dall'altra parte della città. Mia madre li andò a trovare un paio di volte; io, che ormai andavo all'Università, proprio mai. Seppi che il povero e ingenuo Silvio fece un infarto fulminante pochissimo tempo dopo il loro trasloco. La Teresa, ormai vedova, ma affatto abbattuta dalle avversità, teneva ancora un flebile contatto telefonico con mia mamma: le due si sentivano mensilmente più che altro per abitudine. 
Ricordo però che mentre preparavo uno degli ultimi esami universitari, mia madre un giorno mi disse, con aria un po' preoccupata, che da un po' di tempo non aveva notizie dalla Teresa, la quale non rispondeva alle sue numerose chiamate telefoniche. Dopo alcuni giorni, mia madre riuscì però a parlare con una vicina, di cui era riuscita a procurarsi il numero telefonico. 

L'avevano trovata di prima mattina morta stecchita tra i cassonetti: probabilmente la sera prima stava portando giù la spazzatura e aveva avuto un malore senza che nessuno se ne accorgesse. La casa e quel che restava dell'eredità di mio nonno sono finiti a sconosciuti parenti "di giù", di cui nulla sappiamo. A dispetto del mio "quartin de terón", Lagonegro per me è solo un nome geografico, non ci sono mai stato.



E dunque qui, per quanto mi riguarda e ne so, finisce la rocambolesca storia di Matera Giovanni. Credo valesse la pena che io provassi a raccontarla.

29 agosto 2023

Quando la musica ci fa violenza


Cercavo un termine per indicare l'onnipresente somministrazione di musica non richiesta che tutti dobbiamo subire in qualsiasi luogo pubblico. Mi piaceva chiamarla "musica passiva" in analogia con il "fumo passivo", ma poi ho scoperto che Nicola Piovani aveva già coniato questo termine nel 2012. Meglio così, sarà più facile spiegare qualcosa che è già di dominio pubblico. 

Dunque la musica passiva è il sottofondo musicale continuo cui siamo sottoposti non appena mettiamo piede in un luogo pubblico, ovvero usciamo dal nostro isolamento e cerchiamo il contatto umano. Nata come illusorio antidoto all'horror vacui dell'umana esistenza, la musica passiva ha fatto piazza pulita del sano silenzio, ma ha certamente anche una grande responsabilità nello svilimento e nel disinteresse che il grande pubblico prova per la musica attiva e per chi ancora eroicamente prova a farla. 

Il motivo è che è proprio la musica passiva, con la sua invasività, a definire la tipologia standard di fruizione della musica da parte del pubblico, ovvero quella di perenne sottofondo da abbinare ad altro. Ragion per cui non ha più molto senso parlare di generi musicali, ma meglio sarebbe classificare la musica secondo la categoria merceologica a cui essa viene abbinata nell'apposita compilation Spotify: reggaeton o dub da beach bar, elettronica lo-fi da spritz, easy jazz da dopocena al ristorante, country loffio da birreria, lounge da ascensore o da aeroporto, unz unz da negozio di abbigliamento low cost, musica trap da unieuro o da supermercato, cover dei beatles in salsa Bacharach da sala d'attesa del dentista, e così via. 

[Si noti che nella sola area del Salento tutti i succitati generi musicali confluiscono nella Pizzica, ma questa è un altra storia.]


E' chiaro che il livello di insofferenza che proviamo verso la musica passiva è fortemente soggettivo. In generale mi pare di capire che chi è abituato a fare musica o a dedicare alla propria musica preferita ascolti attenti e meritevoli di concentrazione percepisca la musica passiva come una grande violenza, mentre gli altri sembrano non patirla affatto. 

Vi è inoltre un altro uso riempitivo della musica che, come la musica passiva, personalmente subisco con fastidio, ma che di nuovo sembra non dare noia alla maggioranza delle persone. Mi riferisco a quella che definirei "musica in tranci", o se preferite "musica al taglio":  tranci di lunghezza variabile di canzoni di successo o di altre musiche molto popolari, tradizionalmente usati per farcire gli spot pubblicitari, vengono sempre più utilizzati ogniqualvolta vi sia un momento di attesa da colmare. 

Questo avviene per esempio durante manifestazioni sportive, tipo partite di tennis o pallavolo, ma anche in certi reality televisivi, ad esempio tra un frammento e un altro di un'intervista. In questo caso non si tratta di musiche di sottofondo, perché il volume può essere anche altissimo, ma è la durata a fare la differenza. Il trancio deve essere abbastanza breve da distillare un singolo messaggio relativo a un preciso stato d'animo, stravolgendo però il concetto di sviluppo e di dinamica che probabilmente era nelle intenzioni dell'autore. 

Potrebbe trattarsi dunque di un'estensione commerciale del concetto di campionamento, peraltro alla base dell'asfittica produzione musicale odierna, e che in fin dei conti è il riutilizzo di un mattoncino di qualcosa di preesistente per creare qualcosa di nuovo, ma che quasi certamente non avrà alcuna attinenza logica, né estetica, con l'intenzione primigenia del materiale da cui viene estratto.

Per fare un esempio, la celebre "Ma il cielo è sempre più blu", che è una canzone martoriatissima e proposta sempre attraverso il singolo trancio di ritornello che contiene il verso omonimo, è perennemente impiegata per veicolare a livello di marketing uno stato d'animo di euforia incontenibile per una nuova tariffa telefonica, per un istituto bancario, per i saldi imminenti, o per un monster block da parte della squadra di pallavolo di casa. 

Ora, potrà piacere o meno, ma il ritornello della canzone originale, per come è stata pensata, trae il suo significato dal crescendo ossessivo nel giro armonico che lo precede, con l'interminabile lista di casi umani citati. Se invece il ritornello viene proposto in isolamento, ogni significato viene stravolto. Questa incongruenza sembra non essere percepita dalla maggioranza delle persone, e del resto l'autore è morto da tempo. 

Inoltre, capita raramente, ma capita che il materiale saccheggiato sia qualcosa di mio gusto: in questo caso a volte i pochi secondi di durata del trancio sono sufficienti a precipitarmi nell'atmosfera di quella canzone o di quella musica. Se questo disgraziatamente avviene, subirò come una forte violenza l'inevitabile e brusca fine prematura del trancio, che avverrà in un momento qualsiasi e senza alcun preavviso. 

Negli spot pubblicitari, soprattutto radiofonici, le esigenze di minutaggio potranno poi richiedere un'ulteriore devastazione del materiale originale, ovvero l'eliminazione di alcune battute di silenzio, ad esempio nel turnaround, oppure di un pezzo di strofa ritenuto non necessario, allo scopo di non sprecare secondi preziosi. Il pezzo ne risulterà orrendamente mutilato e sgangherato nella struttura e nella ritmica, ma ovviamente il pubblico target del messaggio pubblicitario non se ne accorgerà.

Per chiudere: mi sembra di poter concludere che musica passiva e musica in tranci, che è comunque passiva, siano le modalità maggioritarie di fruizione della musica di oggi, relegando le modalità tradizionali a un ruolo minoritario. Del resto, anche parlando di musica fruita in modo un tantino più attivo e consapevole, la scelta dei brani oggi viene per lo più demandata a un qualche intermediario, siano i programmi radio, siano gli algoritmi che generano le compilation di Spotify. Fanno eccezione i rari e agguerriti acquirenti dei vinili, che poi sono gli oggetti feticcio per eccellenza di chi tenga alla propria decisionalità in termini di scelte musicali. 

E qui il discorso potrebbe andare avanti a lungo ma stancherebbe anche gli ultimi strenui lettori faticosamente arrivati fin qui.


21 maggio 2023

Sabato di Pioggia

Ho sempre sofferto le giornate in cui la pioggia è irrefrenabile e non dà tregua, specie in tarda primavera, con la bella stagione che è sì dietro l'angolo, ma non vuole proprio venire. Stamattina però, guardando mesto al di là del vetro il tedioso sgocciolare, ho avuto, come un'improvvisa folgorazione, il ricordo vivissimo di un altro sabato di pioggia di circa 55 anni fa.


Sicuramente anche allora era tarda primavera, anche se non sono proprio certo che fosse maggio, ma magari sì. Potevo avere circa otto anni ed ero, chissà perché, totalmente ossessionato dalla toponomastica della città in cui vivevo, Padova. Studiavo per ore la mappa della città e cercavo di associare ad ogni via o piazza l'immagine di un luogo conosciuto. Il centro della città mi era già molto familiare, ma la periferia presentava enormi lacune. Più di ogni altra cosa mi appassionava la rete auto-filo-tramviaria della città, perché il percorso di una linea di autobus poteva facilmente mettermi in collegamento mentale con questa o quella zona e facilitarmi nella familiarizzazione.

Quel sabato mattina mio padre era a casa, probabilmente si annoiava quanto me per la pioggia incessante e mi chiese se volessi andare da qualche parte con lui, lasciando dunque a me la scelta della destinazione. Era un'occasione irripetibile per esplorare una zona nuova e dunque gli chiesi di portarmi fino al capolinea dell'11, una linea di autobus che senz'altro non avevo mai preso e che percorreva il misterioso quartiere di Montà, fino alla remotissima località di Ponterotto, un nome che trovavo estremamente affascinante.

Lui non batté ciglio ed esaudì questo mio desiderio: raggiungemmo in autobus sotto la pioggia interminabile una qualche fermata del centro e aspettammo tra gli ombrelli l'arrivo dell'11. Salimmo e io mi sedetti con lui nella prima fila, vicino al conduttore dell'autobus per godere bene della vista del paesaggio che, dopo poche curve, iniziò a dipanarsi tra caseggiati e vie a me ignote. Finalmente giungemmo al capolinea, dove non c'era traccia del ponte diroccato che io m'ero figurato, ma un borgo anonimo di periferia. Non era per me interessante scendere dall'autobus e mio padre, data la pioggia, o forse l'assoluto disinteresse per il luogo, non insisté per convincermi a farlo. Quindi aspettammo pazienti sull'autobus il ritorno del conduttore, il quale fu assai sorpreso che noi fossimo ancora lì. Mio padre gli spiegò il motivo, e che no, non ci eravamo sbagliati. Senza alcun intento canzonatorio, aggiunse: "Cossa vol, ghe piase i autobus". Il conduttore annuì, ritenendo che io avessi tutti i diritti di sapere cosa ci fosse dietro le Colonne d'Ercole e ripartimmo verso il centro città.

Io ero molto fiero di aver imparato qualcosa di nuovo sulla toponomastica cittadina e sarei stato già appagato così, ma mio padre mi portò di sua iniziativa in un negozio di giocattoli e mi chiese di scegliere qualcosa. Io optai per una trottola magica che in quegli anni andava per la maggiore e che era spesso pubblicizzata su Topolino, il "Trottolo Wiz-z-zer" e tornammo a casa. L'ultimo ricordo che ho di quella mattinata è il collaudo della trottola che feci seduto sul pavimento del soggiorno, eccitatissimo, ma anche un po' ansioso perché a breve mia madre avrebbe servito il pranzo e avrei dovuto smettere.

Quello è stato forse l'unico giorno di pioggia battente in cui sono stato davvero felice per un momento e di cui oggi, in questo desolante sabato piovoso di 55 anni dopo, ho provato nostalgia.

02 aprile 2023

Non solo ChatGPT

L'intelligenza artificiale fa paura ed è normale che sia così. Ma forse non tutti sanno che non c'è solo ChatGPT. Altre tecnologie si stanno affermando. Seguitemi in questa breve panoramica sui più dannosi modelli generativi basati sugli algoritmi di apprendimento offerti dall'intelligenza artificiale.


ChatGTT   
E' la prima intelligenza artificiale nata a Torino. Si tratta di un algoritmo di demenza naturale che, tramite l'apprendimento delle inefficienze della rete di trasporti pubblici cittadini, si pone l'obiettivo di individuare e promuovere le fonti di massimo disagio per l'utenza.


ChatBOT e ChatBTP
Due AI gemelle specializzate nel generare prodotti finanziari a massimo rischio e minimo rendimento, onde dirottare gli investimenti dei piccoli risparmiatori ancora fedeli ai poco rischiosi Buoni del Tesoro Poliennali.


ChatLGBT 
Una intelligenza artificiale usata per generare contenuti omofobi, allo scopo di coadiuvare il governo in carica nella difficile battaglia contro la parità di genere.


Chapt Intel Q
Questa pericolosissima AI, creata dalla nota multinazionale dei semiconduttori, è la mente pensante generativa di tutta la propaganda prodotta dal gruppo politico di estrema destra QAnon. Il suo scopo è aiutare il Deep State a realizzare il Nuovo Ordine Mondiale.


ChatPSA
Un'AI che produce contenuti minzionali continui e irrefrenabili allo scopo di indurre, nella popolazione maschile over 60, una decisa propensione al suicidio assistito, in modo da dare ossigeno alle sempre più esangui casse dell'INPS.


ChatSPID
Un'intelligenza artificiale che genera in continuazione regole sempre più sofisticate e fantasiose per la creazione delle password necessarie alla navigazione nei siti della PA. Lo scopo ultimo è la definitiva rinuncia da parte del cittadino ad avvalersi dei servizi digitali, tornando alla sana pratica della coda chilometrica allo sportello.


ChatCCCP
Il primo modello generativo antimperialista. Addestrato con le più moderne tecniche di deep learning, il sistema può generare fantasiose giustificazioni rossobrune all'invasione ucraina da parte russa, il tutto senza autocensure imposte dalla logica, dunque in modo analogo a un omologo umano che si informa su ByoBlu. L'obiettivo è la pubblicazione parossistica di contenuti sui principali social networks.


ChatPNRR
Grazie all'intelligenza artificiale è ora possibile generare giustificativi di spesa credibili, come previsto dal Piano di Ripresa e Resilienza e secondo le più aggiornate normative UE. L'ambizioso obiettivo è scongiurare l'emorragia dei fondi che sarebbero naturalmente destinati alla criminalità organizzata e impedirne la sottrazione indebita da parte dello stato e dei suoi rappresentanti.


ChatDPCM
Questo algoritmo, ad uso della Presidenza del Consiglio dei Ministri, produce decreti interministeriali a getto continuo. L'uso dell'AI ha lo scopo di assicurare che tali atti amministrativi contengano disposizioni astratte e di difficile applicazione, attraverso l'inserimento di elementi di ambiguità e il confronto continuo con le normative vigenti, in modo da garantirne la massima incompatibilità.


ChatLSD
Un algoritmo basato su modelli generativi lisergici e psicotropi, che genera visioni meravigliose, piacevoli e persistenti, giochi di forme e colori caleidoscopici, che si trasformano in cerchi e spirali, esplodendo in fontane colorate, in un flusso costante, totalmente innocuo per la persona, in quanto è il Cloud stesso ad assumere comportamenti autolesionistici dovuti alle alterazioni sensoriali. Purtroppo non è raro il caso in cui l'AI stessa decida di mettere fine anticipatamente alla propria esistenza in modo sconsiderato, solitamente lanciandosi nel vuoto, con un notevole spreco in termini di costi.


ChatPnF
Un algoritmo usato dal governo in carica per generare contenuti specificatamente pensati per la riscrittura della storia dello scorso secolo. Grazie a ChatPnF è già possibile invertire a piacimento le responsabilità del fascismo e quelle della resistenza e viceversa, in un processo continuo che fa finalmente piazza pulita di tutta quella retorica obsoleta che vuole i partigiani eroi e i fascisti assassini, quando si sa invece che i partigiani sono stati eroici e i partigiani sono i veri colpevoli, ma aggiungo che i fascisti hanno le loro colpe, quando invece sono i fascisti ad avere salvato l'Italia dall'oppressione del ventennio partigiano.

21 marzo 2022

Superspot

La pubblicità è onnipresente nella nostra vita e non possiamo sottrarci al suo continuo martellamento. Tuttavia esistono particolari attività umane o situazioni della nostra esistenza in cui i pubblicitari ancora non hanno ritenuto di mettere piede. Proverò nel seguito a suggerire un paio di spunti utilizzabili dai creativi per colmare questa lacuna. 

Spunto numero 1 (Linea Vaginot)


«Sì, sì! Così, non ti fermare!»
«Non resisto più… sto per venire…»
«No, aspetta! C'è il superspot… dammi solo 15 secondi… 

Quando si fa l'amore, l'igiene intima è importante… per questo io uso Linea Vaginot! Linea Vaginot: una barriera invalicabile contro germi e batteri! 

Dove eravamo rimasti, amore?»
«Eh, non ce l'ho fatta…»




Spunto numero 2 (Dr. Blot)

«Gli esami sono buoni per carità… ma c'è questa macchia che richiede un supplemento di indagine, probabilmente non è nulla ma è meglio non sottovalutare…»
«E quindi, dottore?»
«Quindi… 

Da oggi contro le macchie più ostinate puoi provare Dr. Blot! Dr. Blot! Senza macchia e senza paura!»

«Ma davvero, dottore?»
«Ma no, sono tutte cazzate pubblicitarie, ma sa com'è? Mi pagano bene e con questo mi sono già fatto la casa al mare»
«Sono davvero contento per lei, dottore...»
«Grazie carissimo, sono 250 euro, ma se paga in contanti posso farle 200…»

05 aprile 2021

Verbali a primavera

Era una di quelle sere di primavera in cui la luce del tramonto sembra non volersi spegnere mai e gli uccelli si rincorrono senza sosta tra alte grida. Una di quelle sere in cui i profumi dell'aria risvegliano sensi assopiti e antiche memorie in quelli come noi che non sono più giovani. Una di quelle sere, dicevamo, e precisamente il 2 aprile u.s. alle ore 20, si riunì in seconda convocazione l'assemblea straordinaria condominiale. 

Presenti i signori Perello, il signor Botta, i signori Chiesa e la signora Martino, presenti con delega i signori Morassutti, per un totale di 780/1000. L'assemblea fu dunque dichiarata valida dall'Amministratore, che aveva un forte mal di testa per i postumi della cena di pesce della sera precedente, innaffiata da qualche bicchiere di troppo di un ottimo Donnafugata ghiacciato, leggermente fruttato. Furono nominati presidente il signor Botta e segretario la signora Martino, sempre molto elegante seppur, dato il contesto, un tantino troppo scollata a detta dei più. 

Si dichiarò subito aperta l'assemblea, che aveva come ordine del giorno il rifacimento del locale portineria, e la sostituzione della caldaia, più varie ed eventuali. I signori Perello, dichiararono subito la loro contrarietà al rifacimento della portineria, preoccupati del prevedibile maggior esborso nelle spese condominiali. I Perello erano due coniugi di mezza età, inseparabili, benché di lui si favoleggiasse una certa qual inclinazione ad intrattenere rapporti carnali mercenari addirittura con giovani del suo stesso sesso. Nondimeno nessuno avrebbe saputo dire da dove fosse nata tale diceria, che nemmeno l'evidenza più schiacciante avrebbe provveduto a fugare. 

I Signori Chiesa, al contrario, espressero il loro parere favorevole, e corroborarono la loro convinzione con la presentazione di un preventivo di euro 7400 più IVA da parte della ditta Ferretti e C., che si era resa disponibile ad effettuare i lavori in tempi brevissimi, preventivo che fu valutato estremamente conveniente dal resto dell'assemblea e gettò nello sconforto la signora Perello, vistosamente accaldata, probabilmente in piena menopausa. Coppia determinata i Chiesa, lei aveva tutta l'aria di portare i pantaloni in famiglia, ma lui, un commerciante in tessuti, aveva una notevole esperienza come venditore e sapeva essere convincente. 

La mozione portineria fu dunque messa ai voti, e approvata, seppure con maggioranza risicata, mentre nella sala scendeva poco a poco l'oscurità: nessuno finora aveva trovato la forza o la voglia di accendere la luce, azione questa che avrebbe sancito lo spegnersi ineluttabile del giorno. Quanto era dolce invero lasciarsi andare alla leggera malinconia che il tramonto ci comunica, eterna metafora del sensus finis cui nessun comune mortale può sottrarsi. 

L'Amministratore, si schiarì la voce e fece partire la discussione sul secondo punto all'ordine del giorno, ovvero la sostituzione della caldaia. Fece un discorso accorato, spiegando quali fosse l'evidente convenienza economica delle nuove caldaie a condensazione e in quanto poco tempo il costo sarebbe stato ammortizzabile. Si capiva che i suoi argomenti facevano grande presa sulla signora Martino, che nel mettere a verbale gli accadimenti, si sporgeva nettamente verso l'Amministratore, un po' imbarazzato ma per nulla infastidito dalla vista del generoso décolleté. Ma il Signor Botta, ragioniere in una agenzia assicurativa e per nulla sensibile alla questione energetica, si dichiarò invece del tutto contrario, e ridicolizzò quanti credevano davvero che il condominio avrebbe tratto vantaggi in termini di spesa dalla sostituzione della caldaia. 

La sua arringa fu evidentemente molto convincente, o forse l'assemblea volle punire la tresca che pareva nascere tra l'Amministratore e la signora, fatto sta che la sostituzione della caldaia fu respinta con il solo voto dissenziente di una signora Martino visibilmente inviperita. L'Amministratore, che in cuor suo per un attimo aveva pensato di trattenere la signora con una scusa qualsiasi, sentì che l'emicrania aveva raggiunto un livello intollerabile. 

Nessuno ebbe qualcosa da aggiungere alla voce "Varie ed Eventuali", cosa che sollevò non poco l'Amministratore, ansioso di chiudere. Non erano passate le 21.30 quando l'assemblea fu dichiarata chiusa, con a seguire regolari firme del segretario, e del presidente. 

La vita non avrebbe mai restituito ai presenti il tempo perduto, ma un altro giorno di ordinaria amministrazione condominiale era giunto al termine.

25 marzo 2021

Naufragio

Quando fu il momento di abbandonare la grande nave, che iniziava lentamente ad affondare, si pose il problema di definire le priorità degli sbarchi. Inizialmente si decise che i naufraghi dovessero essere sbarcati secondo fasce di età decrescente e si iniziò dunque con gli ultraottantenni. Tuttavia fu subito chiaro che i marinai andavano a rilento nel calare nuove scialuppe in mare e che i vecchi stessi faticavano a raggiungere le imbarcazioni e a salirvi a bordo. 

Si decise dunque che, per accelerare le operazioni, fosse logico introdurre anche una seconda coda di priorità, stavolta riservata a precise categorie professionali: i giornalisti per esempio, dato che era estremamente importante documentare il naufragio. Oppure gli avvocati e i magistrati, poiché le indagini sul disastro avrebbero richiesto la loro presenza, e naturalmente i religiosi, perché si poteva prevedere che vi sarebbero state inevitabili perdite e dunque salme da benedire. Per tutte queste persone, meno anziane e dunque decisamente più agili rispetto agli ultraottantenni, si misero in mare scialuppe più snelle, ma dunque anche più scomode e instabili: ci scappò il primo morto: un avvocato marchigiano mise un piede in fallo e scivolò in acqua, rimanendo schiacciato tra la scialuppa e la murata della nave. 

La causa di questa morte fu del tutto accidentale, ma nondimeno si diffuse tra i passeggeri sul ponte una forte sfiducia riguardo la sicurezza delle scialuppe, tanto che molti dichiararono di non volervi più salire. In fondo la nave era grande e avrebbe certamente mantenuto un livello di galleggiamento sufficiente a non farla affondare, mentre, al contrario, quelle scomode e instabili scialuppe sarebbero finite alla deriva in balia delle onde e poi inghiottite dalle acque. 

Tra i più decisi a rimanere a bordo c'erano anche alcuni beninformati, secondo cui l'iceberg non era mai esistito. O comunque non era affatto entrato in collisione con la nave. Essi dicevano di aver appreso da fonti alternative che il capitano, in combutta con una compagnia navale concorrente, stava inscenando ad arte un finto naufragio dietro pagamento di una grossissima somma. E che qualcosa non tornasse avrebbe dovuto essere ovvio (almeno a chi come loro era ancora in grado di farsi delle domande) dal momento che la nave appariva sì inclinata su un fianco, ma non su entrambi. Secondo questi passeggeri, i quali dicevano sottovoce di temere per la propria incolumità personale a causa delle informazioni in loro possesso, quasi tutti i giornalisti a bordo, apparentemente affannati nel telegrafare agli organi di stampa di regime il resoconto di quanto stava accadendo, avevano in realtà un ruolo preciso nella messinscena, per una serie di ragioni che logicamente non si dovevano sapere. 

Il malcontento a bordo aumentava progressivamente: adesso i marinai impegnati nel salvataggio, che inizialmente erano stati accolti come eroi, venivano presi a male parole dalla maggior parte dei passeggeri, ormai quasi tutti decisi a non lasciare affatto la nave. Altri, pur non avendo alcuna esperienza di navigazione, pretendevano di insegnare ai marinai il modo più corretto di calare le scialuppe in mare. 

La nave intanto iniziò a inclinarsi in modo sempre più preoccupante, alcuni passeggeri piangevano e urlavano di terrore, ma c'era anche chi, sicuro della propria incolumità, li derideva fra sghignazzi e sonore pernacchie. Si pensò per un momento di far smettere l'orchestra, che in quel frangente continuava imperterrita a suonare motivetti allegri, ma poi si decise che la diretta televisiva dalla sala da ballo non poteva essere interrotta pena ingenti richieste di danni da parte dello sponsor. 

E fu a quel punto che la nave fu inghiottita definitivamente, all'arrivo della quarta, immensa e terrificante ondata.


19 dicembre 2020

Kamikaze 5


 «Caro amico, come sta?» La voce che sento alle mie spalle ha un timbro familiare, mi volto ed ecco qui dopo tanto tempo il tizio che fa di professione il kamikaze. Gli occhi vispi e allegri sono inconfondibili, e la presenza della mascherina non mi impedisce di riconoscerlo al primo sguardo. 

«E' un bel po' che non ci si vede!» e lui: «Beh, l'ultima volta che ci siamo incontrati eravamo in piena prima ondata...». «Vero. Come se la passa?». 

Chissà perché mi aspettavo che per lui non fosse un gran periodo dal punto di vista lavorativo. «Niente male, niente male...» mi dice invece: «Il lavoro va a gonfie vele...». «Sono contento per lei, ma mi dica: la pandemia non la sta ostacolando a livello professionale?» «Beh, all'inizio sì... per noi kamikaze lo smart working non ha tanto senso, uno dei colleghi ci ha provato, ma ha avuto infinite noie con l'amministratore, volevano fargli pagare dei danni che non le dico, persino il rifacimento del tetto, che poi lui stava al primo piano, non le dico che incazzatura...» 

«E quindi, come tira avanti?» «Beh per lavoro uno può muoversi come gli pare. La cosa peggiore per noi kamikaze è doversi limitare agli obiettivi sensibili all'interno del proprio comune... sa, dopo un po' si è conosciuti, ti possono riconoscere... per fortuna che la mascherina ci aiuta molto...» 

«E quindi come fa?» «Beh, non ci sono mai stati tanti assembramenti come in questo periodo: metti per esempio le code all'aperto per fare gli esami del sangue, uno va lì, si fa un controllo che non fa mai male e intanto ne approfitta per lavorare un po'» 

Mi indica la coda per il tampone sul lato opposto della strada. «Ma ha la prenotazione?» «Certo, non sono mica uno sprovveduto, ormai ho maturato una lunga esperienza... lo dico senza falsa modestia: mi stimano molto anche i colleghi. Adesso mi hanno anche assegnato un'autobomba aziendale, tanto per dire che hanno apprezzato il mio lavoro...» «Sono felice per lei» 
«Ma sono quasi alle soglie della pensione, sa? Mi mancano solo pochi anni...» «Ah, io pensavo che voi kamikaze non aveste diritto alle pensione...» «Beh da un po' di tempo qualcosa si è mosso, io poi ho riscattato gli anni di califfato, sono stato previdente. Poi dicono che noi kamikaze non abbiamo la testa sulle spalle!».

Mi strizza l'occhio, mi saluta con la mano e si avvia verso la massa dei pazienti in attesa. Mi fa sempre piacere reincontrarlo. E' davvero un buon diavolo.

29 novembre 2020

Arancini amari

Più o meno all'epoca di questa foto, dove è ripreso felice tra mamma e papà, il piccolo Stefano si trovò un giorno a fronteggiare la prima dolorosa separazione della sua vita. Il luogo del delitto era un asilo infantile a circa un chilometro da casa: a distanza di tantissimi anni non è facile ricordare, ma gli resta una vaga immagine di un vialetto lungo e stretto che portava all'interno di una costruzione moderna e colorata, e una suora sorridente che accolse lui e la mamma che lo accompagnava. 
Lui del resto non era affatto spaventato, anzi era curioso di entrare in quello che si figurava essere una specie di paese dei balocchi e aspettava eccitato che la suora, che con tutta probabilità era la madre superiora, finisse di chiacchierare amabilmente con mamma. Ma improvvisamente si verificò qualcosa di totalmente inaspettato: all'epoca non esisteva il concetto di inserimento e mamma, sempre allegra e bellissima, lo prese in braccio, lo baciò e lo salutò sparendo dietro la porta a vetri. 
Il piccolo Stefano per alcuni secondi rimase incredulo, non aveva assolutamente capito che la presenza di mamma non fosse prevista per il resto della giornata né per i giorni a seguire. In quei pochi secondi egli passò dall'euforia alla disperazione più assoluta: presto iniziò a piangere e a urlare al mondo il proprio dolore: mamma non era mai stata nemmeno per un minuto lontana da lui finora. 
Il ricordo è a tratti confuso ma a tratti ancora nitidissimo: quello che accadde è che fu preso in consegna da un'altra suora, non la stessa che li aveva accolti: così come quella appariva elegante, signorile e autorevole, questa appariva più dimessa, forse lavorava in cucina perchè quando lo cinse cercando di calmarlo, il piccolo Stefano, con il naso schiacciato contro la tonaca, avvertì nettamente un forte odore di minestra e di mele. Il fatto è che lui non aveva alcuna voglia di calmarsi, anzi, più pensava alla sua situazione, più le urla aumentavano. 
La suora non sembrava affatto preparata ad un'eventualità simile, e tutto quello che seppe fare fu portarlo con sé in una specie di ripostiglio, un luogo che odorava di detersivi scadenti e di lucido da scarpe. Forse era lì che tenevano le provviste, può essere che la suora cercasse di calmarlo offrendogli qualche dolcetto, ma nel ricordo questo si è perduto. Tuttavia, se questa era l'intenzione, probabilmente non funzionò granché. 
E a quel punto, e qui il ricordo è nitidissimo, la religiosa ormai convinta che il piccolo fosse indemoniato, tentò una specie di esorcismo casalingo e gli ordinò di baciare il crocifisso che lei teneva al collo. Il piccolo Stefano sapeva di non avere alternative, non solo perché la suora era chiaramente più forte di lui, ma anche perché rifiutarsi di baciare il crocifisso sarebbe stato peccato mortale: questo, instintivamente, lo sapeva benissimo. Ancora oggi risente il contatto delle proprie labbra con il metallo freddo e umido di lacrime. 
Ora nuovamente il ricordo si fa confuso, ma in qualche modo l'esorcismo funzionò, non tanto per intercessione divina, quanto perché il piccolo Stefano ebbe la netta sensazione che non ci fosse da scherzare, avrebbe dovuto smettere di piangere o sarebbero stati guai seri per lui. Il dolore per il tradimento di mamma che l'aveva abbandonato non si era attenuato però, e per tutta la giornata le lacrime continuarono a sgorgare copiose. 
Ricevette una scodella di latte con orzo e del pane: lui che era un formidabile viziato mangiatore di latte e biscotti, ne fu disgustato. Più tardi a pranzo ebbe un arancino di riso, oleoso e quasi freddo, con il riso talmente impaccato in una sorta di palla collosa che pensò di vomitare tutto quello che aveva mangiato dalla nascita. 
Ancora oggi il signor Lazzaretto, che è una buona forchetta ed è sostanzialmente onnivoro, non riesce a tollerare gli arancini di riso, pur sapendo bene quanto possano essere prelibati se fatti come dio comanda. E ancora oggi egli non tufferebbe mai nemmeno una briciola di pane nel proprio caffelatte. Se invece il bacio al crocifisso sia parte in causa nel suo essere diventato ateo e insofferente ad ogni forma di liturgia, e non solo religiosa, egli non saprebbe dire, ma si augura di cuore che la pedagogia, nel frattempo, abbia fatto un netto miglioramento.

25 aprile 2020

Kamikaze 4

Oggi mi accorgo che, davanti a me in coda al supermercato, c'è quel tizio simpatico che di professione fa il kamikaze. Si gira, mi vede, fa l'occhiolino: capisco che mi sta sorridendo da dietro la mascherina. Realizzo però che, stranamente, non indossa la sua solita cintura esplosiva.
«E' da un po' che non la si vede in giro» dico.
«Amico mio, cosa vuole, questa pandemia è una catastrofe per il nostro settore. Mi dica: lei da quanto tempo è che non sente parlare di attentati suicidi?».
«In effetti...» commento «...è un'altra di quelle tradizioni storiche che purtroppo si vanno perdendo...»
«Han tagliato gli organici. Da quando sono vietati gli assembramenti non c'è lavoro. Io stesso sono stato messo in cassa integrazione a zero ore. E' solo questione di tempo: è la volta che mi tocca rimanere a casa» mi dice.
«Mi spiace davvero... e adesso cosa pensa di fare?».
«Sto faccendo dei colloqui...» mi dice con malcelato entusiasmo «... e ho buone chances di essere assunto come complottista, per ora con un contratto part-time, ma a tempo indeterminato.»
Io cado dalle nuvole, non sapevo di questa professione e gli chiedo spiegazioni.
«Ma sì, è un lavoro piacevole e per niente stressante, si fa interamente in smart working, basta una buona connessione Internet.»
«Ma quindi... mi scusi se banalizzo... si tratta semplicemente di diffondere fake news cospirazioniste? E la pagano per questo?»
«Certo, ma guardi che anche qui ci va un certo talento: bisogna selezionare continuamente, ci sono milioni di notizie, individuare quelle che funzionano di più dal punto di vista del marketing, quelle che hanno più presa, mi capisce?»
Annuisco.
«E bisogna continuamente stare al passo coi tempi. Insomma avrà visto anche lei che ogni giorno escono complotti nuovi... Devi tenerti sempre aggiornato... Ad esempio adesso va tantissimo il 5G, ma guai a fossilizzarti: rischi di rimanere tagliato fuori. Chiaramente puoi decidere di andare sul classico, è una scelta anche quella... i vaccini ad esempio: andranno sempre perché sono un prodotto senza tempo, ma ed esempio chi si è buttato sulle scie chimiche adesso fa la fame, non vanno più!»
Gli chiedo se si guadagna bene.
«Mah... alla fin fine dipende sempre dal target che uno si dà: c'è gente che fa la grana con questo lavoro. Io mi accontenterei di viverci decentemente.»
«Lei mi stupisce sempre» gli dico ammirato. «Ma chi sarà il suo datore di lavoro, se posso permettermi?»
«Non dovrei dirlo, loro non vogliono che si sappia. Ma lei mi è simpatico... l'azienda si chiama "Deep State" ma sarebbe in pratica un rebranding: una volta si chiamava "Poteri Forti", se la ricorda?»
«Il nome non mi è nuovo»
Mi sorride con complicità.
«A me piaceva il vecchio nome... ma capirà: l'inglese funziona di più, come un po' in tutto, del resto...»
Avrei ancora tante domande da fargli, ma dobbiamo salutarci: è arrivato il nostro turno. Ci salutiamo con cordialità rispettando il doveroso distanziamento sociale e in un attimo lo vedo sparire dietro il banco delle mozzarelle.

(Aprile 2020)

Kamikaze 3

L'altro giorno al mercato ho avuto di nuovo il piacere di scambiare due chiacchiere con quel tizio che di professione fa il kamikaze. Mi ha salutato con il solito calore, ma si vedeva che era sofferente, non capivo se per malessere fisico o per qualche conflitto interiore. Gli ho chiesto cosa avesse; mi aspettavo di sentirlo parlare di insoddisfazione lavorativa, o magari del senso di inutilità che ti prende dopo tanto tempo che ti fossilizzi nello stesso lavoro. Invece: «Amico mio, non me ne parli. La schiena mi fa impazzire, ho l'ernia del disco, una sciatica che non le dico. Dovrei stare a riposo, ma sa... noi kamikaze dobbiamo camminare in continuazione per cercare obiettivi sensibili... ad ogni passo è una fitta, una scossa elettrica fino al calcagno... e sì che io sono uno che di solito sopporta bene...». Dico: «Ma ha fatto gli esami?» «Come no, dentro e fuori dagli ambulatori, tempi di attesa, una barba» «E cosa dicono i medici?» «Cosa vuole che dicano... uno l'ernia se la tiene, si fa la sua ginnastichina e tanta pazienza» «E come fa col lavoro?» «Ah non posso certo stare in mutua! Nel nostro lavoro uno può crepare ma non ammalarsi. Meno male che adesso fanno queste cinture lombari che ti tengono ben dritta la schiena. E ti danno un minimo di sollievo.» E mi ha mostrato quella che sembrava una normale cintura lombare steccata, ma che a ben guardare, ospitava una serie di cilindri di metallo collegati a dei fili elettrici. Lui mi guardava con aria complice. «Ma non mi dica! Ha una cintura lombare esplosiva? Ma è geniale!» «Non lo dica a nessuno» mi ha risposto.  «All'organizzazione non piace, è poco virile... sa com'è... noi kamikaze siamo sempre costretti a mostrarci spietati, invincibili. Ma neanche noi siamo superuomini. Del resto io non saprei come fare altrimenti». Mi ha sorriso, gli ho dato una pacca sulla spalla, con delicatezza, e ce ne siamo andati, ognuno per la sua strada.

(Giugno 2017)