"Lei come si chiama?"
"Lazzaretto"
"Nazareno?"
"LAZZARETTO... Due zeta e due ti"
Il cognome che porto non mi ha mai messo a disagio per l'etimologia certamente non edificante, quanto perché devo sempre specificare: "con due zeta e due ti". Se non lo faccio, di solito viene trascritto come "Lazzareto", o "Lazareto". Un tempo provavo a dire: "Sa? Come nei Promessi Sposi? Il lazzaretto...?", ma di solito intravedevo il vuoto interstellare negli occhi di chi avevo davanti e dunque ho definitivamente rinunciato alla citazione letteraria affatto chiarificatrice.
Nella mia città natale, Padova, Lazzaretto è però un cognome diffuso, nessun dubbio che le mie origini siano di lì, dal lato paterno. C'erano parecchi parenti a testimoniarlo, come la sorella di papà, Elena, la mia unica vera zia, simpatica e burbera, viaggiatrice e teatrante.
E poi la mia nonna paterna, Maria, che non aveva perso le abitudini contadine, cenava alle sei di sera e teneva in casa una gallinella da uova, che io stavo ore a cercare di ipnotizzare imponendo al volatile le mani in un modo che avevo appreso chissà come e che tuttavia sembrava ottenere un discreto successo.
C'era stata per la verità anche un'altra sorella, Rosa, ma era morta giovane e di lei conoscevo solo un paio di fotografie. Ho un vago ricordo anche di qualche cugino di mio padre e più indietro nel tempo altre figure sbiadite di parenti più alla lontana, che non saprei nominare.
Da parte di mamma, tutto invece era meno chiaro. Mia madre figlia unica. Mia nonna materna morta prima che nascessi. E poi c'era il nonno materno, Giovanni, che di cognome faceva Matera, un cognome che tradiva origini lontane. Lui sarà il vero protagonista del mio racconto, in quanto è lui che mi ha regalato il mio quarto meridionale o, detta nel mio dialetto, il mio "quartin de terón".
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Matera Giovanni negli anni '50 |
Matera Giovanni era un nonno bello, elegante e raffinato, dagli occhi verdi chiari. Era un grande esperto di automobili, almeno quanto mio padre le detestava, e si presentava a casa dei miei sempre in doppiopetto, cappello di paglia e bastone. Aveva addosso un gradevole profumo di acqua di colonia e faceva il baciamano alle amiche di mia madre: tutte ragioni per cui era molto ammirato. Sapevo a malapena di lui che era di Lagonegro, in provincia di Potenza: il suo accento smaccatamente meridionale, ma piuttosto nobile, come talvolta sono gli accenti del sud, a me sembrava strano e un po' ridicolo, abituato com'ero all'accento veneto se non al dialetto.
Allora non ci facevo caso, ma, a pensarci, Matera Giovanni era davvero un pesce fuor d'acqua: come mai non c'erano altri parenti di giù? Di solito i "teroni" avevano sempre pletore di parenti, fratelli, zii, ma lui no. Per la verità una persona c'era: tale Teresa, di cui non ricordo nemmeno il cognome. Matera Giovanni conviveva con questa Teresa e con il marito di lei, tale Silvio, un contadino buono e semianalfabeta dall'accento veneto fortissimo, formidabile mangiatore di tagliatelle al ragù, sempre in canottiera e con due occhi sporgenti che lo facevano somigliare a Louis Armstrong in versione bianca.
La Teresa, come veniva chiamata a casa mia, si riferiva a Matera Giovanni con il termine "mio zio", benché nessuno conoscesse il loro reale grado di parentela. Si sapeva solo che era originaria della stessa zona del nonno. Lo strano trio viveva non lontano da casa nostra e dunque non di rado capitavano da noi.
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Moira Orfei |
Io però molto mi vergognavo della zia Teresa, perché, tanto Matera Giovanni era raffinato, tanto la Teresa era esteticamente ridicola e rozza. Era bassa e larga, coi capelli corvini, pittata come Moira Orfei e tremendamente ignorante, storpiava tutte le parole e sembrava una caricatura da tutti i punti di vista.
Di tutte le zie vere o finte - e quasi tutte le amiche di mia madre lo erano - la Teresa era l'unica cui mi ero affezionato ben poco, e che mi dava disagio. Crescendo, poi, iniziavo a provare vera irritazione quando la vedevo arrivare a casa. E del resto non sembrava che i miei avessero di lei un'opinione migliore.
Ho pochi ricordi, ma molto peculiari delle nostre visite a casa di Matera Giovanni e C. La tavola la ricordo sempre occupata da farina, uova e mattarello. La Teresa tirava la pasta con indiscutibile maestria, dovendo placare la fame atavica di Silvio, che a tavola affrontava con gioia terrine gigantesche di tagliatelle al ragù.
Di Silvio ricordo che teneva una piccola conigliera in giardino e un giorno mi propose di assistere all'esecuzione di uno dei conigli. Io, che avevo forse sette anni, accettai dapprima con curiosità, ma poi ne fui inorridito e mi misi a piangere. Silvio, di indole contadina e privo di empatia verso gli animali, ingenuamente pensò che fossi impressionato perché il povero coniglio aveva rilasciato le sue feci nell'esalare l'ultimo respiro, mentre io semplicemente avevo percepito la sofferenza della bestia e ne avevo avuto paura.
Dei tre conviventi, Matera Giovanni in realtà era quello che si faceva vedere di meno, si sapeva che lavorava come autista e arrivava sempre con macchine diverse, talvolta anche molto belle.
Gli anni passarono e, direi intorno ai miei diciott'anni, Matera Giovanni si ammalò e cessò di farsi vedere a casa nostra. I dolori alla gamba, che lo avevano per anni costretto al bastone, si estesero a tutte le sue ossa e iniziò un lungo calvario, sotto il vigile controllo della Teresa. Mia mamma contestava apertamente la decisione apparentemente illogica di quest'ultima di curarlo a casa, e ogni giorno andava a trovare il padre morente, per cui tra le due donne si creavano continue e violente discussioni.
Io ammetto che ero poco interessato, o meglio fuggivo istintivamente lo spettro della morte imminente, come fanno tutti i giovani a quell'età. In pratica, salvo un paio di fugaci visite a casa loro in cui mi parve di avere di fronte uno scheletro, mio nonno non lo vidi più.
E venne il giorno del funerale.
Era un giorno di pioggia, credo fosse novembre, c'era parecchia gente che non conoscevo. Il feretro era nella camera del nonno, c'era il parroco per benedire la salma. La Teresa lanciava altissime urla, si strappava i capelli, sembrava tarantolata. Mia madre la guardava con fastidio, mio padre fingeva di non vederla e non sentirla. Lei faceva tutto il repertorio di "Ma perché mi hai lasciato?", "Come faccio io adesso?" con voce resa rauca dal troppo urlare, ma c'era un'evidente nota falsa nella sua presunta sofferenza. Persino il prete a un certo punto tentò di zittirla, perché si potesse procedere alla benedizione e alla chiusura della bara per poi partire in corteo verso la chiesa vicina.
Durante la celebrazione della messa, che io ascoltavo distrattamente pensando ai fatti miei, qualcosa attirò la mia attenzione. Il prete, nel nominare i familiari orbati, disse testualmente: "i figli..." e seguì un elenco di tre, Maria, Rosa e Antonio. Poi, fatta una breve pausa, aggiunse una seconda Maria, che io intuii essere mia madre, ben distinta dagli altri tre. Io guardai mia madre con aria interrogativa e lei annuì con la faccia di chi vuole minimizzare: "poi ti spiego". Durante il resto della cerimonia, non riuscivo a pensare ad altro e, una volta tornati a casa dal cimitero, mia madre mi disse: "non te ne avevo mai parlato, ma adesso ti racconto tutto".
Non era la prima volta che mia mamma mi faceva rivelazioni epocali: lei era di due anni più grande di mio padre, ma mi aveva sempre fatto credere di avere quattro anni di meno, in modo che fosse lui a risultare più grande di due. Un giorno, verso i miei dodici anni, per caso vidi la sua carta di identità e le chiesi spiegazioni sulla data di nascita riportata. Lei ebbe la faccia tosta di dirmi che il documento era sbagliato e io le credetti, anche se ero un po' scettico. Ammise la piccola bugia solo qualche anno dopo.
Ma tornando ai fatti in questione, mia madre mi fece sedere, mi chiese di prendermi del tempo e iniziò a raccontarmi la vera storia di Matera Giovanni.
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Matera Giovanni nel 1918 |
Dunque, ecco la narrazione di mia mamma, al meglio di come la ricordo. E' la primavera del 1918 e la Grande Guerra infuria. Matera Giovanni, ventottenne di stanza in Veneto, incontra, non sappiamo come, Giulia Dovis, una sartina diciassettenne di Padova. Matera Giovanni è bellissimo e Giulia se ne innamora perdutamente. Ovvio che la sua mamma, la mia bisnonna Giovannina, la mette ripetutamente in guardia: "non sta' a fidarte de quel Giovanni, el xe uno che vien dale tere balerine...". La terminologia ora è desueta ma ovviamente fa riferimento ai frequenti terremoti che colpiscono il sud, vedi quello terrificante di Messina nel 1908. Tra l'altro, secondo l'Accademia della Crusca, il termine "terrone" parrebbe venire proprio dalle terre ballerine.
In ogni caso le raccomandazioni non vanno a buon fine: si sa che a quell'età la passione è travolgente e irrefrenabile, così, di lì a poco, Giulia resta "inguaiata". Nel racconto di mia mamma la cronologia non è del tutto chiara, ma sta di fatto che a un certo punto Matera Giovanni, deciso a portare Giulia all'altare, fa ritorno al paese per i documenti necessari. Peccato però che non si decida a rientrare.
A novembre viene firmato l'armistizio a Villa Giusti, proprio nelle vicinanze di Padova, sottoscritto dal comandante del VI Corpo d'Armata austro-ungarico, il generale Weber Von Webenau, e dal generale Pietro Badoglio, Maresciallo Generale del Regno d'Italia. La Grande Guerra, almeno per l'Italia, finisce. Di Matera Giovanni però non vi è traccia, se non per qualche lettera in cui lui giura che è questione di giorni. Giulia aspetta con fiducia, ma ormai è al settimo mese e, preso coraggio, si reca all'anagrafe di Padova, o non so in quale altro ufficio pubblico dell'epoca, chiedendo informazioni. Non sappiamo se sospetti qualcosa o sia totalmente ignara di cosa l'aspetta, ma qui riceve la notizia ferale: Matera Giovanni è già sposato, ha moglie a Lagonegro e pure due figli.
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Giulia |
A questo punto della narrazione, mia mamma dà il meglio della sua indole drammatica e racconta che Giulia, sotto choc e in preda alla disperazione, sviene proprio alla sommità dello scalone interno al palazzo e rotola giù. Soccorsa, ha immediatamente le doglie e il 5 dicembre del 1918 dà alla luce mia madre, settimina. Questa scena di grande suggestione, degna di un film dell'epoca del Muto, la riporto per completezza, ma non posso giurare sulla sua verosimiglianza.
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La piccola Maria |
Quello che è certo però che Matera Giovanni, non privo di senso dell'onore, è deciso a riconoscere la creatura. In quegli anni però non era facile riconoscere un figlio illegittimo, ma in questo caso viene usato un escamotage che ha dell'incredibile: mia madre è registrata come Maria, figlia di Matera Giovanni e di NN, negando perentoriamente il principio del diritto secondo cui "mater semper certa est, pater numquam".
Non so se fosse allora una pratica diffusa, ma tant'è. E non credo sia un'invenzione di mia madre, perché, da questa dicitura sui documenti, lei dovette trarre molta sofferenza, in quanto oggetto di scherno non solo da parte dei compagni di scuola, ma anche degli insegnanti. Siamo in piena era fascista, del resto.
Ma torniamo ai fatti. Matera Giovanni, non insensibile al destino di Giulia e della piccola Maria, ed evidentemente sempre più infelice con la moglie legittima, rimugina sull'idea di lasciare il paese natale e di tornare a Padova. E' vero che, durante la permanenza in Lucania, non perde l'occasione di mettere al mondo il quarto figlio, ma ciò non implica che a un certo punto non ricompaia magicamente a Padova. Non da solo, bensì con tutta la famiglia al seguito.
Non mi è chiaro se la moglie all'epoca sappia di Giulia e della bambina, ma mi verrebbe da supporre di sì. In ogni caso mio nonno viene assunto come autista alle dipendenze del conte Antonio Dolfin, erede di uno dei più nobili e antichi casati veneziani. Anche la moglie diventa parte della servitù, cosicché tutti alloggiano nella dependance di una delle ville del conte.
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Mamma e nonna con cagnolino (anni '20)
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Nel frattempo Giulia e la piccola Maria, iniziano una lunga e penosa peregrinazione: secondo la narrazione di mia mamma, le due, anzi tre, perché c'è pure la mia bisnonna Giovannina, sono costrette a cambiare di frequente casa perché, non appena si viene a sapere che Giulia è una ragazza madre, vengono sfrattate. Non so quante volte ciò succeda davvero, perché c'è sempre da considerare la tendenza alla drammatizzazione di cui mia madre è specialista, tendenza che lei eserciterà per tutta la vita e che, per inciso, provocherà sempre in mio padre, uomo di indole più allegra, la stessa peculiare reazione, tra il divertito e lo sconsolato: "Maria, mòleghela de far palco!" (Trad. "Smettila di fare teatro").
Sono invece abbastanza certo che Matera Giovanni, ora che guadagna a sufficienza per mantenere due famiglie, offra un sostanzioso aiuto economico alle tre donne. A scanso di equivoci però, Giulia, donna molto intraprendente e bravissima sarta, a poco a poco inizia a creare un piccolo atelier che riscuoterà negli anni a venire un certo successo a Padova, con un bel numero di ragazze come dipendenti. Si può immaginare che lei sia conscia della situazione precaria e che voglia raggiungere una certa indipendenza economica, cosa che le riuscirà perfettamente negli anni a venire.
Adesso, per una volta, sarò molto preciso perché ho ritrovato un documento interessante tra le vecchie carte di famiglia. Il 29 ottobre 1932, Matera Giovanni e la moglie stipulano una "Privata Convenzione" secondo cui, sussistendo la separazione personale di fatto, benché non omologata da alcuna Sentenza di Tribunale, dichiarano e confermano di voler rimanere separati.
In questo documento si dice che Matera Giovanni continuerà a convivere con la Signora Giulia Dovis fu Marco, senza che la moglie possa promuovere azione alcuna e si fissano i termini economici con cui mio nonno si impegna a mantenere la moglie e due dei figli avuti con lei, dato che nel frattempo la primogenita si è coniugata. Questo "continuerà a convivere" proverebbe che ad un certo momento Matera Giovanni abbandona la moglie e si trasferisce a casa di Giulia, anche se non sappiamo quando ciò avvenga di preciso.
La convivenza però non dura a lungo. Giulia ha ormai parecchie ragazze che l'aiutano nella sua attività, e ha molti clienti anche facoltosi da seguire. Accetta di prendere a lavorare con lei persino le due figlie di primo letto di lui, a testimonianza della sua buona volontà e anche del successo della sua attività. Ma si può immaginare che Giulia abbia i suoi grattacapi e sia sempre meno premurosa nei confronti di Matera Giovanni. Quest'ultimo, peraltro, la combina grossa perché giunto ormai alla mezza età, inizia a circuire le numerose ragazze dell'atelier e pare che venga colto in flagrante con una di esse. Non so per certo se sia questa la ragione per cui lui e Giulia si separano definitivamente, ma in ogni caso il loro rapporto era ormai alla fine.
Scoppia la seconda guerra mondiale e qui perdo di vista per un po' la storia di Matera Giovanni. Le tre donne continuano a vivere dal sole in una bella casa del centro di Padova. Dopo l'8 settembre ospitano anche due sfollate dal centro Italia, una signora di mezza età e la nipote. Sono due donne molto distinte che però hanno comportamenti strani, la zia sembra disperarsi ogniqualvolta la nipote tarda a rientrare dal lavoro. Inoltre, durante gli allarmi aerei, le due restano chiuse in casa e non vanno al rifugio antiaereo, che, per inciso, è sotto la sede di un Comando Tedesco in Piazza Spalato, a due passi da casa.
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Un rifugio antiaereo di Padova
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Sembra incredibile che mia mamma e mia nonna non avessero nemmeno lontanamente intuito la ragione di tutta quella paura, ma mia madre giurava che solo alla fine della guerra verranno a sapere che erano due ebree, grazie a una lettera di ringraziamento. Che naturalmente è andata persa, ed è un vero peccato perché si fornivano particolari su chi fossero realmente le due donne: c'era di sicuro una relazione di parentela molto stretta di una delle due donne con Elsa Morante: una sorella? Una zia? La stessa Morante?
Quest'ultima ipotesi, talvolta fattami balenare da mia mamma, è certamente da escludere, ma tant'è: mia madre non ricordava altro. Del resto all'epoca la scrittrice era poco conosciuta, se non in quanto moglie di Moravia.
Il fatto che due ebree abbiano preso alloggio a pochi metri dal Comando Tedesco sembra una scelta incosciente, a meno che non fosse diabolicamente calcolata. Incoscienti del tutto invece mia mamma e Giulia, se si pensa alle possibili drammatiche conseguenze nel caso le due ospiti fossero state scoperte.
Arriva nel frattempo anche il 25 aprile, che poi a Padova si protrae fino al 27, e la guerra finalmente ha fine.
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Mia madre negli anni '40 |
Mia madre ha iniziato a uscire con mio padre, è molto ben vestita, date le capacità sartoriali di Giulia. Mio padre, un po' meno. Ha appena partecipato all'insurrezione partigiana e non ha grandi risorse economiche. Però un episodio sicuramente consolida la loro relazione. Durante i giorni di confusione seguiti alla liberazione, mentre stanno passeggiando per il centro, si imbattono in un plotone di esecuzione improvvisato: lui viene scambiato per un ex gerarca fascista e viene messo al muro, tra le urla di mia madre. Sarà salvato in extremis da un altro partigiano, che lo aveva conosciuto durante la clandestinità e che testimonierà per lui. Mi immagino un dialogo del tipo: "Fermi! Sto qua no'l xe miga Ghizzolini! El xe Lasareto, el xe uno dei nostri!". "Ah sul serio? Scusa tanto Lasareto! Ghemo sbajà de persona. Cossa vuto? Xe robe che poe capitare...".
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Mio padre nel '46 |
L'ultima cosa che dice la vecchissima nonna Giovannina prima di lasciare questo mondo sono parole di disapprovazione per la scelta sentimentale di mia mamma: "El xe un contadin! E un fasiolo, per quanto che'l boje, el resta sempre un fasiolo!" (Trad: "Per quanto lo si faccia bollire, un fagiolo resta sempre un fagiolo").
Insomma c'era un problema di status sociale: mia madre, ormai superato il trauma del suo essere figlia di NN, era una elegante signorina del centro. Mio padre, veniva dalla campagna, ovvero da una zona della città che adesso è considerata semicentrale e residenziale, ma allora troppo periferica per la bisnonna Giovannina. Però anche stavolta il parere della vecchia resterà inascoltato. Si sposeranno cinque anni dopo, nel 1950.
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Mia madre attorno al '50 |
Gli anni quaranta sono quelli in cui le vicende di Matera Giovanni mi sono più sconosciute. Questo fatto ha una sua logica, perché mia madre si affaccia alla vita adulta e ha minore attenzione per lui. Non so esattamente quando ma ci sono alcuni episodi che non so collocare nel tempo: la morte della prima moglie in primis. E anche la fine dell'impiego come autista presso il conte Dolfin. Per il resto della sua vita lavorativa mio nonno sarà alle dirette dipendenze di un imprenditore nel ramo degli pneumatici, dove sfrutterà le sue competenze di lunga data in fatto di automobili.
Nel 1950 Matera Giovanni non è più un giovanotto, ha circa sessant'anni. Probabilmente, dato che all'epoca per un uomo essere single era quasi inconcepibile, lui inizia a pensare che sia giunto il momento di trovare qualcuno che si prenda cura di lui. Le due donne più importanti del suo passato non sono più disponibili, per motivi diversi. E allora tenta la carta dell'amore filiale: chiede formalmente a mio padre di prenderlo in casa con lui e mia madre, novelli sposi. Mio padre, direi abbastanza saggiamente - e del resto mia madre stessa, pur non esplicitando troppo la sua posizione, si trova d'accordo - gli risponde: "Signor Giovanni, lei ha già combinato abbastanza guai. Non credo sia una buona idea...".
Non so quanto Matera Giovanni abbia patito questa decisione. Ma bisogna riconoscere che, negli accadimenti che seguono, darà il meglio di sé. Al paese natale individua una lontana parente, una giovane di circa venticinque anni e la fa emigrare a Padova offrendole vitto e alloggio. In cambio lei si occuperà delle sue necessità pratiche, una specie di cameriera o di badante anticipata. Lui del resto è ancora super attivo. La giovane non è certo una bellezza, ma appunto è giovane e lui non più tanto.
Mia mamma è sempre stata reticente nei confronti delle avventure sessuali di Matera Giovanni, incluse le tresche con le ragazze dell'atelier di qualche anno prima. Queste cose infatti non le ho sapute da lei, ma da Luciana, amica da sempre di mia mamma e di zia Elena, e dunque una delle mie più care zie acquisite. Non è però difficile credere che Matera Giovanni e la giovane emigrata abbiano una relazione.
Secondo i racconti di Luciana, la giovane è talmente gelosa che nottetempo va a imbrattare con epiteti ingiuriosi il campanello di Giulia, da lei considerata una specie di rivale, per quanto in disarmo, ma soprattutto rea di avere disonorato la famiglia di giù.
Ebbene, non è difficile capire che questa giovane gelosa altri non è che la famigerata Teresa, all'epoca sperabilmente un pochino meno grottesca di quando l'ho conosciuta io, ma sicuramente già combattiva e determinata. La Teresa, inoltre, non vuole che Matera Giovanni frequenti la figlia di secondo letto, tanto più che questa ha opposto il gran rifiuto: "Non l'avete voluto con voi? Adesso non lo vedete più".
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Eccomi con mamma nel 1962 |
Passano altri anni, siamo nel 1956, e Giulia scopre di avere un cancro in fase avanzata. Viene operata senza successo e, fin da subito, è chiaro che la sua aspettativa di vita è brevissima. Non si può fare altro che somministrarle la morfina per contrastare gli atroci dolori e aspettare. Mia madre, che l'assiste giorno e notte, maturerà un vero e proprio terrore nei confronti di quel male lì, al punto da sospettare frequentissimamente di esserne affetta negli anni a venire ad ogni minimo sintomo nuovo. Non morirà di quello, se la cosa può interessare.
Presto arriva l'inevitabile fine di Giulia e mia madre, che in fondo ha vissuto in simbiosi con lei quasi tutta la vita, ne è devastata. Ma la vita continua e finalmente, dopo un paio di tentativi andati a vuoto, due anni dopo metterà al mondo il primo e unico figlio. Una primipara che ha già compiuto quarant'anni non è cosa che si vede tutti i giorni a quel tempo, anche se mia mamma sembra davvero molto più giovane nelle foto con me piccolino.
Negli anni in cui abbiamo un po' perso di vista il protagonista del mio racconto, c'è un fatto nuovo da segnalare. La Teresa, probabilmente per i sopraggiunti limiti di età di "suo zio", come lei lo chiamava, decide che è ora di accasarsi per davvero.
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Louis Armstrong |
Dunque, al suo fianco fa la sua comparsa, in un momento che non conosciamo di preciso, il buon Silvio, il Louis Armstrong bianco, mangiatore di tagliatelle, che la porta all'altare. Ma questo non significa che Matera Giovanni sia abbandonato a se stesso: i due sposi lo prendono in casa con loro. La Teresa rinfaccerà sempre a mia mamma questa differenza: "voi l'avete lasciato solo come un cane, ma io no".
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Eccomi con Matera Giovanni nel '60 |
Tuttavia, secondo mia mamma, la mia nascita contribuirà a creare un minimo di disgelo nei rapporti tra le due fazioni: Matera Giovanni vuole conoscere il nipotino e anche la Teresa, che per inciso non avrà mai figli, ne è desiderosa.
Ora i tre abitano non lontano da casa nostra e si stabilisce quel tipo di relazione parentale che ho conosciuto io da bambino e che ho descritto all'inizio del mio racconto.
Matera Giovanni è ormai un distinto settantenne, ma mantiene viva la sua passione per le auto. Mio padre invece odia guidare e non avrà alcuna auto fino al '65, quando si deciderà a comprare usata la mitica Fiat 850 blu detta "Azzurra" che poi erediterò io a diciott'anni e guiderò fino alla completa disgregazione. Si capisce dunque come il nonno sia felice di scarrozzarci in giro con le sue belle auto: darei per certa una Alfa Romeo Giulietta berlina grigia e una Fiat 1500 blu scuro, ma ero molto piccolo e potrei non essere preciso.
Una volta avuta anche noi l'auto, giocoforza queste gite in auto col nonno si diradano. In ogni caso, Matera Giovanni continuerà a guidare fino ai suoi 85 anni: le sue auto andranno via via rimpicciolendosi fino ad arrivare all'ultima, una Fiat 126 bianca, con cui lui, spesso con la Teresa e talvolta anche Silvio, vengono di frequente a casa nostra, annunciati da una sequenza riconoscibile di colpetti di clacson. Mia madre in questi casi corre alla finestra per vedere in quanti siano. La sua reazione può essere infastidita ("Ecola, ghe xe anca la Teresa") oppure sollevata ("Manco male, no la ghe xe").
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La foto più recente che ho di Matera Giovanni (anni '70, (eccezionalmente in tuta da lavoro) |
Uno stupido incidente con torto, una mancata precedenza, per fortuna senza conseguenze sulle persone, metterà fine attorno al 1975 alla pratica di guida del nonno, il quale non sopporterà l'idea di aver commesso un errore così marchiano e, demolita la 126, non guiderà mai più. Ma, sempre secondo mia madre, ciò lo manderà in depressione.
E stiamo per giungere all'epilogo amaro di questa lunga storia di famiglia. Ho già raccontato la malattia e la morte di Matera Giovanni, ma posso fornire alcuni particolari sull'accorta gestione della fine di mio nonno, da parte della Teresa. Dunque, come si poteva supporre, la Teresa, che già disponeva interamente della pensione di vecchiaia dello "zio", approfittando dello stato penoso in cui questi versava, riuscì sul letto di morte a farsi intestare tutte le sue proprietà.
Non so assolutamente a quanto ammontassero, ma credo non fossero del tutto trascurabili. So per certo che l'unica eredità che mia madre ha avuto dl padre è una cassapanca del '700 che mio nonno, a sua volta, aveva avuto in dono dal conte Dolfin. Questo fu possibile solo perché mio nonno la regalò ai miei quando era ancora vivo, altrimenti la Teresa se la sarebbe tenuta di sicuro.
La sapiente manovra di aggiramento dell'asse ereditario compiuta dalla Teresa aveva come fondamento centrale il controllo assoluto dei rapporti tra mio nonno e mia madre. Qualora Matera Giovanni fosse stato ricoverato in ospedale, mia madre, in un momento di distrazione della Teresa, avrebbe potuto convincere il padre morente a modificare la disposizione dei suoi averi. Ecco perché era necessario che il povero Matera Giovanni fosse tenuto segregato in casa, senza le necessarie cure palliative, cosa che mia madre, che invece non manifestò alcun interesse nemmeno alla quota di legittima, provò a contestare senza successo.
Se qualcosa finì ai tre figli di primo letto, non è cosa che saprei dire, ma giurerei che la tignosa Teresa non abbia mollato l'osso nemmeno con loro.
Dopo i pianti e gli strepiti al funerale, la Teresa si riprese peraltro in gran fretta dalla perdita incolmabile. Con lei e con Silvio, come si può immaginare, i nostri rapporti si diradarono in fretta. Ben presto i due comprarono un grande appartamento, molto più consono alla nuova posizione sociale, dall'altra parte della città. Mia madre li andò a trovare un paio di volte; io, che ormai andavo all'Università, proprio mai. Seppi che il povero e ingenuo Silvio fece un infarto fulminante pochissimo tempo dopo il loro trasloco. La Teresa, ormai vedova, ma affatto abbattuta dalle avversità, teneva ancora un flebile contatto telefonico con mia mamma: le due si sentivano mensilmente più che altro per abitudine.
Ricordo però che mentre preparavo uno degli ultimi esami universitari, mia madre un giorno mi disse, con aria un po' preoccupata, che da un po' di tempo non aveva notizie dalla Teresa, la quale non rispondeva alle sue numerose chiamate telefoniche. Dopo alcuni giorni, mia madre riuscì però a parlare con una vicina, di cui era riuscita a procurarsi il numero telefonico.
L'avevano trovata di prima mattina morta stecchita tra i cassonetti: probabilmente la sera prima stava portando giù la spazzatura e aveva avuto un malore senza che nessuno se ne accorgesse.
La casa e quel che restava dell'eredità di mio nonno sono finiti a sconosciuti parenti "di giù", di cui nulla sappiamo.
A dispetto del mio "quartin de terón", Lagonegro per me è solo un nome geografico, non ci sono mai stato.
E dunque qui, per quanto mi riguarda e ne so, finisce la rocambolesca storia di Matera Giovanni.
Credo valesse la pena che io provassi a raccontarla.